• Come Rispondere alle Nuove Esigenze di Realizzazione Personale

    INTRODUZIONE

    L’avvento della YOLO Economy – You Only Live Once – riflette un mutamento generazionale che mette al centro l’equilibrio tra lavoro e vita, spingendo sempre più persone a cercare esperienze lavorative autentiche e significative. Negli ultimi decenni, il mondo del lavoro ha vissuto una trasformazione profonda. Se una volta il successo e la realizzazione personale erano legati a una carriera stabile e all’impegno totale verso l’azienda, oggi le priorità sono cambiate radicalmente.

    Questo fenomeno non riguarda solo i più giovani: coinvolge anche i lavoratori senior, che, dopo anni di sacrifici, rivalutano il loro rapporto con il lavoro.

     

    La pandemia ha amplificato il desiderio di vivere appieno, facendo emergere nuove domande: come raggiungere un equilibrio tra ambizioni e benessere?

    Come può il lavoro adattarsi ai valori e alle aspirazioni delle persone, senza soffocarle?

    Oggi più che mai, le organizzazioni sono chiamate a ripensare le loro strategie di attrazione e retention, superando le differenze generazionali e costruendo una cultura aziendale che risponda ai bisogni di tutti.

     

    L’Evoluzione della visione del lavoro: dalla devozione totale all’equilibrio desiderato.

    Mano che tiene una chiave dorata illuminata, simbolo di successo e nuove opportunitàFino a qualche decennio fa, la carriera rappresentava una delle principali fonti di realizzazione personale.

    L’idea prevalente era che il successo si misurasse con la dedizione totale all’azienda, fatta di orari estenuanti e sacrifici continui. La famiglia spesso veniva messa in secondo piano, perché il lavoro era considerato il fulcro della vita adulta.

    Negli anni del boom economico, il lavoro era associato a stabilità e sicurezza finanziaria: costruirsi una carriera significava garantire benessere alla propria famiglia e raggiungere uno status sociale riconosciuto.

    In quel contesto, l’identità personale era intrecciata strettamente al ruolo professionale.

    “Cosa fai nella vita?” non era solo una domanda di circostanza, ma una vera e propria etichetta di identità.

    Tuttavia, con l’evoluzione della società e l’accelerazione delle trasformazioni tecnologiche, la visione del lavoro ha subito un cambiamento radicale.

    Le nuove generazioni hanno iniziato a rifiutare l’idea di sacrificare la propria vita personale per la carriera. La pandemia di COVID-19 ha ulteriormente accelerato questa trasformazione, le persone hanno iniziato a riflettere sul vero valore del tempo e della salute.

    Il lavoro non è più visto come una priorità assoluta, ma come una parte di un’esistenza più ricca e significativa.

    Le domande retoriche emergono in modo naturale: come bilanciare il desiderio di successo con il bisogno di vivere una vita piena? E soprattutto, cosa conta davvero oggi per sentirsi realizzati?

    La YOLO Economy: quando e dove il lavoro incontra la vita

    Blocchi di legno con la scritta YOLO, simbolo della filosofia You Only Live Once.Negli ultimi anni, la YOLO Economy  ha catturato l’attenzione come un fenomeno legato ai giovani che, consapevoli dell’incertezza del futuro, scelgono di vivere pienamente nel presente.

    Questo fenomeno ha preso piede in tempi recenti, ma le sue radici affondano in un cambiamento più profondo che ha attraversato il mondo del lavoro negli ultimi decenni. La digitalizzazione e l’aumento della precarietà hanno portato le persone, soprattutto i giovani, a rivalutare il concetto stesso di lavoro.

    Non è un caso che il termine abbia iniziato a circolare con forza durante la pandemia, quando le persone hanno riscoperto l’importanza di vivere nel presente e di non rimandare ciò che conta davvero.

    La YOLO Economy è evidente in tutto il mondo, ma soprattutto nei Paesi occidentali, dove le nuove generazioni hanno più libertà di scegliere il proprio percorso di vita.

    Le grandi dimissioni del 2021 negli Stati Uniti sono un chiaro esempio: milioni di persone hanno lasciato il lavoro in cerca di condizioni migliori, maggiore flessibilità e un impatto significativo. Tendenza che si sta diffondendo anche in Europa, dove il lavoro da remoto e i modelli di lavoro flessibili stanno diventando la norma.

    I protagonisti di questa rivoluzione: non solo i Millennials e la GenZ

    I protagonisti di questa rivoluzione non sono solo i Millennials e la Generazione Z, anche i lavoratori senior stanno abbracciando questa filosofia, riconoscendo

    che non vale più la pena di sacrificare la propria salute o la propria felicità per un lavoro che non li soddisfa.

    La YOLO Economy è quindi un fenomeno transgenerazionale che abbraccia persone di tutte le età, unite dal desiderio di vivere una vita autentica e significativa.

    La rilevanza della YOLO Economy risiede nella sua capacità di riflettere un cambiamento culturale profondo: le persone non vogliono più aspettare di andare in pensione per godersi la vita.

    Vogliono un equilibrio ora, vogliono sentirsi riconosciute e valorizzate sul lavoro, e vogliono che il loro tempo abbia un significato. La YOLO Economy è la risposta a un mondo in cui le vecchie certezze sono crollate, e dove il presente è l’unica certezza rimasta.

    Le aziende devono ripensare il modo in cui strutturano il lavoro e le aspettative nei confronti Mano che tiene una bilancia, simbolo di equilibrio tra lavoro e vita con sfondo naturale. dei dipendenti.

    Offrire flessibilità, supportare la crescita personale e creare un ambiente inclusivo e rispettoso dei bisogni individuali non è più un optional: è una necessità per attrarre e trattenere i migliori talenti.

    Il Work-Life Balance è ora la regola, non l’eccezione

    Le ricerche dimostrano che l’equilibrio tra vita e lavoro non è solo un desiderio dei più giovani. Secondo un rapporto di Forbes Italia (2023), circa il 70% dei lavoratori ritiene che un buon equilibrio sia più importante dello stipendio. E non si tratta solo di chi sta iniziando la carriera: molti lavoratori senior, dopo anni di sacrifici, stanno rivalutando il loro approccio al lavoro. Un sondaggio di PwC (Global Workforce Survey) ha mostrato che il 63% dei dipendenti tra i 45 e i 60 anni preferisce evitare trasferimenti o incarichi che compromettano la loro qualità di vita. Questo cambio di mentalità dimostra che il bisogno di equilibrio è universale.

    Ma cosa significa, in pratica, garantire un buon work-life balance?

    Non si tratta solo di avere più tempo libero, ma di creare un contesto in cui le persone si sentano supportate, riconosciute e valorizzate. Le aziende che riescono a mettere il benessere dei dipendenti al centro delle loro politiche organizzative ottengono un engagement più elevato e una maggiore fidelizzazione dei talenti.

    Esempi concreti sono aziende come Patagonia, che offre ai suoi dipendenti la possibilità di partecipare a progetti ambientali, e Google, che durante le selezioni cerca di comprendere non solo le competenze tecniche, ma anche le aspirazioni profonde dei candidati.

    Non è forse vero che spesso le generazioni sono viste come mondi distinti, con bisogni e aspettative diverse? E se invece fossero molto più simili di quanto crediamo?

    In un’epoca in cui le differenze generazionali sono amplificate dai media, il vero cambiamento culturale sta nel riconoscere che tutti, indipendentemente dall’età, vogliono sentirsi parte di qualcosa di significativo. Per attrarre e trattenere le persone di ogni generazione, le aziende devono costruire una cultura inclusiva, che abbracci l’eterogeneità delle esperienze e valorizzi il contributo di ciascuno.

    Il lavoro non deve essere un luogo in cui ci si perde, ma un contesto che nutre, che arricchisce e che contribuisce alla costruzione di un futuro condiviso.

    Le aziende che comprendono questa esigenza e investono nella costruzione di un ambiente di lavoro flessibile e umano sono quelle che sapranno prosperare nel lungo termine.

     

    PER APPROFONDIRE:

    SFIDA HYBRID: STRATEGIE PER UNA COMUNICAZIONE INTERNA EFFICACE UNA CULTURA ORGANIZZATIVA RESILIENTE

    WORK-LIFE BALANCE: DALLA GENITORIALITÀ AL CAREGIVING – NUOVE FRONTIERE DEL WELFARE AZIENDALE

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  • alt="Innovazione Felix e impatto ambientale nell'intelligenza artificiale"

    Innovazione “Felix”: La voce di Hermes Consulting

    INTRODUZIONE

    Nel contesto di una riflessione approfondita sull’innovazione tecnologica e le implicazioni etiche e ambientali, Giulia Terracciano, Responsabile della Comunicazione in Hermes Consulting, ha avuto l’opportunità di esplorare queste tematiche in un’intervistata approfondita con Vincenzo Di Martino, Consultant & Coach in Hermes Consulting ed esperto nel campo.

    L’intervista ha affrontato temi chiave:

    • Impatto ambientale dell’AI, spesso sottovalutato nel dibattito politico;
    • Crescente desiderio di un ritorno ai valori umani;
    • La necessità da parte delle nuove generazioni di un equilibrio tra innovazione e sostenibilità.

    Un momento di luce su come possiamo guidare l’innovazione tecnologica verso un futuro più “felix”.

    Giulia: Vincenzo, quali sono, secondo te, i principali aspetti dell’impatto dell’intelligenza artificiale sulla società e sull’ambiente che la percezione pubblica tende a sottovalutare?

    Vincenzo: Più che una sottovalutazione del problema ambientale, credo semplicemente che non venga quasi preso in considerazione questo tema, o meglio che se ne parli davvero troppo poco a livello di dibattito pubblico e aziendale.

    Eppure, gli studi sull’impatto ambientale delle nuove tecnologie sono chiari e consolidati.

    Ad esempio, uno studio pubblicato in diverse riviste scientifiche e depositato all’ONU, intitolato Making AI less: Thirsty: Unicovering and Addressing the Secret Water Footprint of AI Models”, evidenzia il problema dell’acqua nello sviluppo dell’IA.

    Per addestrare modelli come GPT-3, nei moderni data center staalt="Innovazione Felix e impatto ambientale nell'intelligenza artificiale"tunitensi di Microsoft, si utilizzano circa 700.000 litri d’acqua dolce pulita, equivalenti alla produzione di circa 370 auto BMW o 320 auto Tesla.

    In un momento in cui rapporti come quelli di Amnesty International denunciano che oggi molte persone diventano profughi a causa della mancanza di acqua, definendolo come fenomeno di migrazione climatica.

    Un altro dato significativo riguarda il consumo di energia e le emissioni di CO2. L’addestramento di GPT-3 ha consumato circa 1.287 MWh e ha portato a emissioni di oltre 550 tonnellate di anidride carbonica, equivalenti a 550 voli andata e ritorno New York-San Francisco.

     

    Con l’evoluzione verso GPT-4, che richiede più parametri, i consumi energetici aumentano ulteriormente.

    Giulia: Quali passi dovrebbero essere intrapresi per allineare meglio la percezione con la realtà?

    Vincenzo: È necessario sensibilizzare le persone e formare adeguatamente sia chi sviluppa la tecnologia sia chi la utilizza. Andrebbe diffusa una cultura di consapevolezza rispetto all’intelligenza artificiale. Oltre a migliorare l’addestramento degli strumenti, è importante riflettere in modo serio sull’impatto ambientale di queste tecnologie.

    Le persone devono essere informate e coinvolte in un dialogo consapevole sull’argomento.

    Giulia: In riferimento a questo correre dietro all’innovazione, si è osservato un ritorno ai valori umani. Le persone si stanno interrogando sulle proprie capacità e sul proprio essere, chiedendosi: “Quale posto occupo io? Quale contributo posso dare al mondo ora che le tecnologie possono fare le cose al posto mio?” Secondo te, perché sta avvenendo tutto questo?

    Vincenzo: C’è un recupero di quella che in filosofia si chiama “opzione fondamentale”: la scelta personale su chi siamo e cosa facciamo in questo mondo.

    La felicità, intesa come realizzazione del proprio potenziale, è un concetto che risale ai latini.

    Ad esempio, un campo o un albero felix era considerato tale quando produceva i frutti che era destinato a produrre.

    Un albero di mele è felix se genera mele, non se genera fragole, indipendentemente da quanto buone possano essere le fragole.

    Questo concetto si applica anche alle persone: ciascuno di noi deve realizzare il proprio potenziale unico per trovare la propria felicità e il proprio posto nel mondo.

    Le persone stanno recuperando questa consapevolezza, riflettono sul proprio contributo unico alla comunità umana. Le giovani generazioni, in particolare, stanno riscoprendo la relazionalità costitutiva dell’essere umano. Gli strumenti tecnologici rischiano di toglierci questa qualità, e i giovani stanno facendo da campanello d’allarme, chiedendo di recuperare un modo di stare insieme di qualità.

    Questo desiderio di etica è chiaro nei giovani, specialmente riguardo all’ambiente.

    La sfida è tradurre questa voglia di etica in scelte concrete e pragmatiche.

     

    Giulia: Secondo te le nuove generazioni stanno mettendo in moto una salvaguardia dell’ecosistema e di sé stessi, evitando che si arrivi alla deriva?

    Vincenzo: Assolutamente sì. Prendersi cura di sé è un atto etico fondamentale.

    Dal momento in cui sto meglio io, stanno meglio anche le persone che si relazionano con me.

    Questo concetto sta entrando anche nel mondo aziendale, dove i giovani non sono più disposti a rinunciare a valori profondi per il lavoro. Le aziende dovrebbero sostenere questa attenzione e aiutare anche le generazioni più adulte a recuperarla, evitando che le persone si ammalino o siano insoddisfatte. È importante creare un ambiente lavorativo dove si faccia cultura e si promuova l’incontro e il dialogo tra le persone.

     

     

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  • LA MAGIA DELL’OUTDOOR CULTURALE®: UNA METAFORA CHE TRASFORMA

    HBR: Il sogno della maggior parte degli Amministratori Delegati e degli HR Manager è trovare una forma di “magia”, che aiuti le persone a cambiare facilmente mentalità, per adattarsi in tempi rapidi ai cambiamenti con pensieri e comportamenti nuovi, per un mondo che grida evoluzione.

    Chiediamo a Hermes Consulting, Società Benefit di Firenze, che da 30 anni accompagna i cambiamenti nelle aziende. Come affrontate questo bisogno di magia?

    Monia Russo Partner di Hermes Consulting parla dell'approccio Outdoor Culturale per il cambiamento aziendale

     Monia Russo, Partner di Hermes: Abbiamo sviluppato una metodologia proprietaria a questo scopo, chiamata Outdoor Culturale®.

    Una storia che a mio avviso racconta gli effetti di questa magia è quella di un AD di un gruppo internazionale General Contractor, che avendo cambiato la struttura organizzativa, doveva convincere i 5 Direttori Generali delle diverse country a collaborare, condividere le grandi attrezzature per le costruzioni e armonizzare le risorse nella gestione delle gare di appalto.

    Dopo più di un anno di tentativi non andati a buon fine, ci ha contattati per capire cosa ci fosse “che non andava in queste persone” perché non riusciva a farle lavorare in un modo diverso.

    Abbiamo incontrato ad uno ad uno i Direttori e abbiamo progettato un offsite di due giorni a Siena, con una visita ispirativa al ciclo di affreschi del Bene Comune di Ambrogio Lorenzetti, che si trova nel Museo Civico della città.

    Attraverso una narrazione, impostata sul costrutto metodologico delle metafore ericksoniane, abbiamo ricalcato la situazione che ci avevano raccontato l’Amministratore e i Direttori in fase di analisi.

    Sempre attraverso la narrazione dell’opera, abbiamo suggerito e ispirato delle soluzioni, in linea con quanto prevedeva la riorganizzazione aziendale.

    Nel momento della riflessione, successiva alla visita, l’Amministratore Delegato è rimasto molto colpito dal cambiamento che il gruppo ha manifestato.

    Uno degli episodi più rappresentativi di questa trasformazione, è stato quando il più anziano dei Direttori, anche il più resistente, ha trovato, grazie alle suggestioni della metafora, una forte connessione con il proprio lavoro: “Avete visto cosa facevano i contadini di Siena? Condividevano le macchine e risparmiavano, potremmo farlo anche noi!”.

    La magia è stata che da quel giorno, l’implementazione del sistema matriciale si è realizzata con molta più facilità e i Direttori, durante la gestione degli appalti, hanno iniziato a scambiarsi buone pratiche e macchinari.

    Come scatta la magia?

    Alessandro Rizzi ideatore metodologia Outdoor Culturale Hermes Consulting

    Alessandro Rizzi, uno degli ideatori della metodologia: Portiamo i Team reali o interfunzionali, a vivere esperienze a stretto contatto con la storia dell’arte, dentro installazioni artistiche, mostre e capolavori dell’architettura.

    La struttura dell’Outdoor Culturale® riesce, attraverso il potere della metafora, ad accendere la sfera emotiva della mente, risvegliando così la motivazione e la proattività delle persone, stimolandone anche il pensiero critico e razionale.

    Ottiene come prodotto l’accelerazione dei cambiamenti richiesti dal contesto e il raggiungimento più facile dei risultati. Grazie agli stimoli che le metafore artistiche creano, le persone vivono un momento di consapevolezza, che permette loro di vedere agite le proprie dinamiche di comportamento, scorgendo nuove soluzioni, trovando punti di convergenza e immaginando assieme futuri possibili.

    Questo approccio utilizza l’isomorfismo (una corrispondenza di forme e strutture) tra l’esperienza dell’azienda e la rappresentazione artistica, per aprire finestre inedite e produrre salti di pensiero più veloci.

    Come costruire le metafore in modo che siano efficaci?

    Monia Russo: Ogni narrazione artistica viene costruita in modo che il “sentire di una realtà aziendale”, che raccogliamo attraverso interviste e focus group, sia traslato nella storia, così che si crei un rispecchiamento nei partecipanti e si possa creare un collegamento tra l’esperienza metaforica raccontata e il futuro che l’azienda desidera perseguire.

    Questo permette di vivere la propria storia aziendale collegata a valori e scopi personali, consente di vedersi e sentirsi raccontati e infine di osservare il presente e il futuro da un punto di vista esterno. Questo processo intensivo culmina nella proiezione sulla realtà lavorativa, per immaginarla, dopo l’esperienza, in modo diverso e introdurre dei cambiamenti reali.

    L’Outdoor Culturale® dà un’identità precisa ai problemi e la presentazione metaforica della tematica trattata, consente ai partecipanti di arricchire la loro prospettiva, allargare il proprio mindset e la vista, individuando così nuove soluzioni.

    La traduzione del vissuto interiore, in termini razionali, consente di trasferire nel quotidiano quanto appreso metaforicamente.

    L’esperienza genera una sorta di mappa mentale, che permette di affrontare situazioni simili, nella realtà presente e futura, con consapevolezza.

    In questi anni abbiamo sviluppato percorsi con diverse finalità nelle principali città d’arte italiane, che sono delle vere e proprie esperienze magiche!

     

    Perché unite la narrazione metaforica proprio all’arte?

    Alessandro: L’arte ha in sé un codice aperto e arriva dritta al cuore prima ancora di essere “letta”. Ha un linguaggio polisegnico, quindi soggetto a molteplici interpretazioni. Muove processi profondi e permette di lavorare sulla propria realtà, mantenendo una distanza dalla quotidianità, funzionale a superare i propri blocchi e a mettere in risalto i propri vissuti. Permette di partire da ciò che le persone sentono nel profondo e sviluppa strategie di cambiamento radicate in questo sentire.

    Edith Kramer, pittrice e terapeuta, diceva che “l’opera d’arte è un contenitore di emozioni” e Vygotskij, uno dei padri della psicologia, parlava della creatività e dell’immaginazione come elementi necessari per stimolare la ricerca di nuove soluzioni e aprire le porte al cambiamento.

    Pertanto, l’arte non è una fuga dalla realtà, anzi permette di incorniciarla, di conoscerla meglio, guardandola con nuovi occhi, osservandola da punti di vista diversi. Consente inoltre di esprimere concetti che rimarrebbero altrimenti celati e magari censurati, se utilizzassimo solo il canale verbale. L’arte concede il permesso alle persone e alle organizzazioni di pensare in modo diverso, parla una lingua “universale” compresa quella dell’inconscio che è in grado di liberare risorse latenti.

    I progetti migliori non hanno solo una struttura ben studiata, hanno soprattutto un’anima palpabile che prende forma grazie alla combinazione tra metafora terapeutica e arte.

     

    Cosa rende questa metodologia un catalizzatore di progettazioni sostenibili e mirate alla longevità dei contesti organizzativi?

    Diego Piovan Partner di Hermes Consulting parla di sostenibilità e Outdoor Culturale

    Diego Piovan, Partner: La sostenibilità è diventata un imperativo non solo ambientale, ma anche economico e sociale. Richiede una leadership che vada oltre i tradizionali modelli gestionali, che sia piuttosto olistica, adattiva e radicata in una profonda comprensione dei sistemi complessi.

    L’Outdoor Culturale® è in linea con tutte le ultime scoperte legate alla leadership della complessità. La ricerca di Barrett C. Brown (2011), executive coach ed esperto globale sullo sviluppo della leadership, sostiene che solo leader con sistemi di significato avanzati possono progettare e gestire uno sviluppo sostenibile.

    Per prepararli a questa sfida, spiega che le esperienze più formative, partono da una profonda base interiore, radicata in valori e principi che guidano non solo la visione, ma anche la strategia di iniziative sostenibili. Permettono di mettere in gioco risorse interne ed espandono il “sentire”, la recettività e la coscienza.

    Secondo la ricerca di Manners, J., & Durkin, K. (2000), la coscienza si espande a contatto con esperienze rilevanti di natura interpersonale, con un alto impatto emotivo, che vadano oltre le norme e le aspettative esistenti per catalizzare la crescita.

    Questi elementi sono contenuti dell’Outdoor Culturale® che sollecita tutte le 5 dimensioni che, secondo il capostipite della psicologia positiva Martin Seligman, costituiscono ogni esperienza di pienezza: emozioni positive, coinvolgimento autentico ed immersivo, condivisione, senso di scopo e di contribuzione, sperimentazione dell’autoefficacia nel raggiungimento di un risultato.

    Ogni partecipante, così come ogni team, esce profondamente cambiato, in contatto con un nuovo sentire, capace di attivare le risorse per affrontare le sfide della sostenibilità.

    Come possono contattarvi le aziende per organizzare un Outdoor Culturale®?

    Potete scriverci a questi indirizzi:

    Per ulteriori approfondimenti clicca qui:

    Portfolio Outdoor Culturale®

    Approfondimento Outdoor Culturale® 

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  • WORK-LIFE BALANCE: DALLA GENITORIALITÀ AL CAREGIVING – NUOVE FRONTIERE DEL WELFARE AZIENDALE

    Introduzione

    Le politiche di welfare aziendale stanno attraversando un periodo di significativo cambiamento, con un’attenzione crescente verso il Work-Life Balance (WLB).

    Il concetto di Work-Life Balance si riferisce alla capacità delle persone di gestire efficacemente il lavoro e la vita privata.

    Storicamente, queste politiche si sono concentrate principalmente sui genitori, ma oggi emerge la necessità di un approccio più inclusivo.

    I cambiamenti degli scenari globali hanno evidenziato il bisogno delle organizzazioni di adattarsi alle nuove esigenze e priorità delle persone.

    Secondo i dati ISTAT 2023l’Italia ha registrato un nuovo record nel calo delle nascite, con 197.000 nascite in meno rispetto al 2008 (72% in meno).

    Questo fenomeno non è isolato all’Italia, ma è osservabile in molti paesi occidentali, dove le priorità stanno cambiando e la vita sta assumendo forme diverse.

    Questi dati pongono importanti interrogativi:

    • Qual è il mindset di oggi?
    • Quali forme di responsabilità si evolveranno maggiormente domani?
    • Quali punti d’attenzione?

    Qual è il mindset di oggi?

    Con il calo della natalità, si registra un aumento significativo di lavoratori e lavoratrici che scelgono di non diventare genitori. Tuttavia, la cultura attuale spesso riserva importanti stereotipi a queste scelte di vita.

    In molti contesti lavorativi, le persone senza figli sono viste come “senza qualcosa”, ossia senza impegni che giustificherebbero un minore bisogno di supporto per l’equilibrio vita-lavoro.

    Questo stereotipo (bias) riguarda maggiormente le donne senza figli.

    A livello sociale, persiste la convinzione che una donna raggiunga la piena realizzazione solo attraverso la maternità, un bias che tende a oscurare altre forme di realizzazione personale e professionale.

    La ricerca di Verniers (2020) e Ashburn-Nardo (2016) ha dimostrato che le persone senza figli, indipendentemente dal genere, sono percepite in modo meno favorevole rispetto a coloro che sono genitori. Questo perché la scelta di non avere figli è vista come una violazione delle norme sociali, portando alla visione stereotipata che chi non ha figli abbia più tempo da dedicare al lavoro.

    In che modo valutiamo la meritevolezza di supporto?

    La percezione della meritevolezza e il giudizio sociale sono processi complessi che coinvolgono diverse aree del cervello. Le neuroscienze hanno identificato alcune aree chiave implicate in questi processi:

    Corteccia Prefrontale Mediale: coinvolta nella valutazione di sé e degli altri, nella presa di decisioni morali e nel giudizio sociale;

    Corteccia Cingolata Anteriore: contribuisce alla valutazione delle emozioni e alla regolazione delle risposte emotive

    Amigdala: importante per la risposta a stimoli emotivamente significativi

    Insula: coinvolta nella consapevolezza delle emozioni e nella percezione del disgusto e di altre emozioni negative.

    Queste aree lavorano insieme per formare giudizi complessi riguardanti la meritevolezza delle persone. Ad esempio, quando valutiamo se un collega merita maggiore supporto, la Corteccia Prefrontale Mediale può essere coinvolta nella valutazione delle sue esigenze e dei suoi contributi, mentre la Corteccia Cingolata Anteriore e l’Amigdala possono influenzare le nostre risposte emotive a tale valutazione.

    Un ulteriore esempio comune riguarda gli anziani, considerati maggiormente meritevoli di supporto per i contributi dati alla società e al mercato del lavoro. Al contrario, i disoccupati sono percepiti meno meritevoli, talvolta perché il loro status è attribuito a una mancanza di sforzo personale.

     

    Lo studio di Filippi e colleghi (2020) ha evidenziato che i dipendenti con figli sono spesso considerati più meritevoli di supporto per il Work-Life Balance rispetto ai loro colleghi senza figli. Questo bias si riflette anche nelle valutazioni delle donne, dove le madri sono viste come maggiormente bisognose di flessibilità rispetto alle donne senza figli.

    È fondamentale riconoscere che la vita privata delle persone senza figli può essere altrettanto piena di attività come quella di un genitore. Hobby, cura personale, volontariato, studio o semplicemente tempo libero contribuiscono al benessere e alla produttività generale del lavoratore o della lavoratrice.

    Quali forme di responsabilità si evolveranno maggiormente domani?

    Il Caregiving è l’attività di assistenza e cura prestata a una persona non autosufficiente, che può essere un familiare, un amico o una persona cara con disabilità, malattie croniche o anzianità.

    Questo ruolo, svolto principalmente dai familiari, include una vasta gamma di attività, dall’assistenza fisica e sanitaria al supporto emotivo e organizzativo.

    Secondo le stime della Commissione Europea, il valore delle ore di assistenza a lungo termine fornite dai caregiver informali è pari a circa il 2,5% del PIL dell’Unione Europea, una cifra superiore alla spesa pubblica per l’assistenza a lungo termine (Adecco Italia).

    In Italia, il 15,4% della popolazione fornisce cure o assistenza almeno una volta a settimana, con una maggiore incidenza tra le donne (17,6%) rispetto agli uomini (12,9%).

    Questo dato evidenzia che, nonostante molte persone scelgano di non avere figli, non sono esenti da responsabilità di caregiving. Infatti, un numero significativo si trova a prendersi cura di familiari anziani o malati. Queste persone, oltre a coltivare le loro passioni personali, dedicano una parte considerevole del loro tempo e delle loro energie alla cura quotidiana di parenti non autosufficienti.

    Il ruolo di caregiver familiare si estende ben oltre la genitorialità, includendo una vasta gamma di attività di assistenza che influenzano profondamente la vita quotidiana e il benessere psicofisico di chi lo svolge.

    Questo impegno, spesso sottovalutato, è cruciale per il supporto delle persone care e necessita di un riconoscimento e un supporto adeguato dalle politiche di welfare aziendale.

    Quali punti di attenzione?

    Il primo passo da compiere è riconoscere il valore e le esigenze delle persone, indipendentemente dal fatto che siano genitori o meno.

    Offrire flessibilità e supporto a tutti i dipendenti, considerando le diverse forme di responsabilità di cura, può migliorare significativamente il benessere e la produttività sul posto di lavoro.

    In un mondo in cui le priorità e le forme di vita cambiano, le aziende possono scegliere di adottare un approccio inclusivo e adattabile alle diverse esigenze dei loro dipendenti.

    Senza dimenticare le prospettive del futuro, una popolazione che invecchia e le nascite diminuiscono, per arrivare al domani nel miglior modo possibile.

    Conclusioni

    Le aziende hanno l’opportunità di creare un ambiente di lavoro più inclusivo e sostenibile, che valorizzi ogni dipendente e le sue specifiche esigenze. Riconoscere il valore del caregiving e delle altre forme di impegno personale e professionale contribuirà a costruire organizzazioni più resilienti e soddisfatte, capaci di rispondere alle sfide del domani.

     

    Clicca qui per ulteriori approfondimenti: https://mailchi.mp/hermesconsulting.com/work-life-balance-avere-o-non-avere-figli-quali-impatti

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  • Alfa e Omega: il ciclo del cambiamento in Anselm Kiefer

    INTRODUZIONE

    Ogni fine coincide con un nuovo inizio

    Inizio e fine, fine e inizio, due estremi di una stessa linea temporale dove l’uno diventa causa ed effetto dell’altro. Come ogni alfa ha la sua omega, ogni sistema la sua evoluzione.

    In questo eterno divenire, quale posto occupiamo?

    Il tempo è la casa che costruiamo e arrediamo con ciò che abbiamo, rendendola migliore anche per chi verrà dopo di noi. Il nostro compito, quindi, non è solo esistere, ma migliorare, innovare, trasformare ogni passaggio in una evoluzione continua.

    Il corso del tempo non lo possiamo fermare, ma possiamo influenzarne il cammino, il modo di percepirlo e il significato da dargli.

    Abbiamo una responsabilità immensa, ma lo è anche la nostra capacità di creare e trasformare.

    Anselm Kiefer, L’Arte del Tempo

    Inizio e fine diventano così un ciclo, perpetuo, esplorato magistralmente da Anselm Kiefer, un artista contemporaneo di grande fama internazionale che con sensibilità e profondità trasforma le storie del suo passato, intrise del dolore e della complessità della memoria, in un linguaggio artistico unico.

    La sua mostra “Angeli Caduti”, ospitata a Palazzo Strozzi, a Firenze, dal 24 marzo 2024 al 21 luglio 2024 è un manifesto di riflessione sul passare del tempo.

    Durante l’intera mostra, Kiefer ci guida verso una consapevolezza crescente: le cose della vita mutano continuamente, e il tempo diventa il guardiano che, con tocco lieve, segna un prima e un dopo.

    Anselm Kiefer. Angeli caduti, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024 © Anselm Kiefer. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

    I segni di questo tempo?

    I materiali, ad esempio, che compongono l’installazione artistica: piombo, cenere, argilla, semi. Questi elementi sono soggetti al tempo, mutano e si trasformano proprio come la vita.

    Il piombo si ossida, cambia colore, diventa fragile, simbolo della trasformazione e della caducità della condizione umana. Il piombo che è da sempre in attesa di essere trasformato da attente e delicate procedure alchemiche.

    La cenere, residuo di ciò che è stato consumato, evoca la rinascita, il ciclo perpetuo di nascita e morte.

    Argilla e semi rappresentano la potenzialità, la capacità di generare nuova vita anche nelle condizioni più avverse.

    In questo eterno ciclo di inizio e fine quindi, il nostro posto, la nostra opportunità è quello di essere custodi del tempo ma anche capaci di trasformare e innovare, lasciando un segno per le generazioni future. La nostra missione, quella di ogni essere umano, è rendere il passaggio nel tempo non solo sopportabile, ma degno di essere vissuto.

    Luci e Ombre

    Anselm Kiefer. Angeli caduti, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024 © Anselm Kiefer. Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

    L’occhiello della mostra “Engelssturz” è un’opera di oltre sette metri di altezza che cattura lo sguardo di qualsiasi passante. Posizionata nel cortile rinascimentale del palazzo, l’installazione rappresenta in modo chiaro e toccante l’Apocalisse in cui l’Arcangelo Michele combatte gli angeli ribelli, come Lucifero che da prediletto e «portatore di luce» diventa esiliato e anche qui la sua fine coincide con un suo nuovo inizio. Un tema che risuona tra spirito e materia, tra bene e male e che rappresenta una potente metafora della nostra incessante battaglia interiore.

    Scegliere di fare del Bene diventa un comportamento che decidiamo di mettere in atto ogni giorno nelle più piccole cose. Un’abitudine, un costume da salvaguardare e sviluppare, che prende in considerazione l’individualità di ognuno di noi ma anche da una maggiore consapevolezza della collettività, la stessa collettività che nasce da storie passate che insegnano quali destini vogliamo raggiungere, quali nuovi inizi possiamo innescare.

    L’opera, con il suo color oro brillante e luminoso, toglie il fiato. Rappresenta ciò che dovrebbe essere elevato, ma riflette anche su come il presente potrebbe mutare e influire sul domani se non modifichiamo il nostro modo di agire.

    Una nave che deve essere indirizzata oltre il confine del “noi” attuale, verso le distese del “noi” di domani. Una continuazione dell’arto della collettività odierna, che progredisce nel futuro assumendo forme sempre più pure, buone e condivise. Pratiche che fanno bene.

    Costruire il Domani con i Frammenti di Ieri

    Nella condizione umana abbiamo la straordinaria capacità di risistemare il tiro, raccogliere i frammenti dei passi perduti, e voltarci indietro sulla linea del tempo.

    È proprio da quel punto di fine che possiamo comprendere tutto ciò che ci ha condotto fino a lì. Solo così possiamo andare avanti, senza dimenticare quanto fatto fino a quel momento, aggiungendo chilometri di strade al futuro che costruiamo per il “noi” del domani e per i nostri eredi.

    Ogni errore, ogni frammento raccolto, diventa un mattoncino con cui edificare un domani migliore. La distruzione non è fine a sé stessa, ma un passaggio necessario per la creazione. E in questo continuo divenire, il nostro sguardo non si perde nel passato, ma si àncora al presente per proiettarsi nel futuro. La nostra missione è costruire, migliorare, ed evolvere, con la consapevolezza che ogni passo, anche il più incerto, contribuisce alla nostra crescita e a quella delle generazioni future.

    Conclusione

    Il continuum di alfa e omega rappresenta l’eterno fluire della realtà, dove ogni fine contiene il seme del suo nuovo inizio e ogni inizio a sua volta coincide con l’inizio della fine (contiene il seme della sua fine).

    Questo ciclo perpetuo può essere osservato nel mondo naturale e nella nostra stessa esistenza. Nulla è statico; tutto è in costante movimento e mutamento.

    Cosa significa?

    La stabilità diventa un’illusione, l’equilibrio tanto auspicato dal mondo intero risiede nel cambiamento, nella crescita. Basti pensare che nel mercato globale l’evoluzione è rapida, ogni fine ciclo economico, ogni fallimento di un progetto rappresentano un’opportunità di innovazione e rinascita.

    Come vedere la realtà con occhi diversi?

    Possiamo provare a riconoscere laddove possibile la natura ciclica del successo e del fallimento che sono condizioni inevitabili, ad oggi, per la costruzione di un futuro sostenibile. Senza temere il buio e senza voler a tutti i costi raggiungere sempre e solo la luce.

    Senza disordine non percepiamo l’ordine e senza il buio non capiamo cosa sia la luce.

    Come due facce della stessa medaglia, non possiamo gioire del giorno se non conosciamo la notte.

    Anselm Kiefer, con la sua arte, ci offre una visione: anche nei momenti più bui, c’è sempre la possibilità di una nuova alba.

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  • OLTRE I CONFINI DELL’ETÀ: L’INTELLIGENZA INTERGENERAZIONALE PER UNIRE E INNOVARE

    HBR: Oggi in molte organizzazioni emerge una sfida riguardante l’intergenerazionalità che, se non affrontata e gestita, può essere foriera di una grande dispersione di energie. Ne parliamo con Hermes Consulting.

    Chiediamo il punto di vista di Diego Martone, consulente Hermes Consulting e autore del libro “Senza Età. Come generazioni diverse coesistono e insieme creano valore”.

    Attualmente nelle aziende convivono 4 generazioni, spesso descritte solo per gli elementi che esaltano le differenze di origine, cultura e linguaggio, bisogni, competenze e aspirazioni.

    Anche le indagini intergenerazionali delle aziende si imbattono in un noto luogo comune: “È difficile capirsi, vedersi, riconoscersi e parlare la stessa lingua”. Questo pensiero è una scorciatoia facile, un mix dei bias di semplificazione e conferma, che evidenzia quasi esclusivamente le differenze, spesso esagerandole e stereotipandole. Il risultato è scontato: l’incomunicabilità e il mancato riconoscimento reciproco.

    Come possiamo affrontare queste distorsioni? Possiamo alimentare  l’inter-operabilità umana, ovvero un sistema che permetta di valorizzare ogni contributo      con     visione     unitaria,     integrata     e prospettica, prescindendo da qualsiasi tematica connessa all’età, perseguendo un obiettivo comune.

    Non  è  solo  utile  farlo,  ma  è  necessario  per  il benessere dell’azienda e le positive ricadute sia sul business che sulla salute delle persone.

    Perché è così difficile per noi accettare e integrare la diversità generazionale, nonostante gli sforzi consapevoli? Lo chiediamo ad Eleonora Ventura, psicologa del Wellbeing.

    L’integrazione della diversità non è mai stata una cosa semplice.

    Le neuroscienze ci insegnano che il nostro cervello cerca naturalmente l’omogeneità ed è sospettoso verso ciò che percepiamo diverso. Siamo fisiologicamente predisposti a creare un gruppo di appartenenza e a rafforzarne il valore per distinzione dagli altri, di cui estremizziamo i tratti più lontani dai nostri.

    Un meccanismo istintivo che è stato utile per semplificare la complessità. Ci ha guidato spesso a non vederci, a giudicarci per semplificare, a trarre le nostre conclusioni troppo in fretta, ad escluderci a vicenda, alimentando pregiudizi e stereotipie.

    Cosa vedete succedere nelle aziende in cui ci sono dei silos generazionali? Lo chiediamo a Lucia Grazi, Partner da oltre 20 anni e responsabile dell’inserimento di giovani in Hermes Consulting.

    Il fenomeno “Giovani talenti cercasi” o “Nuovi talenti in fuga” è ormai evidente, parallelamente a un fenomeno di marginalizzazione delle persone sopra i 50 anni.

    L’emergere di silos generazionali porta con sé chiari sintomi di disfunzione: notiamo una comunicazione inefficace e una marcata resistenza al cambiamento, soprattutto tra i membri più anziani dell’organizzazione. Queste frizioni limitano non solo le opportunità di mentorship tra le generazioni, ma generano anche tensioni che compromettono la collaborazione, rendendo l’ambiente lavorativo meno coeso. Inoltre, la mancanza di integrazione tra le generazioni spesso causa un alto turnover: i giovani lasciano in cerca di nuove opportunità, mentre i senior si sentono trascurati e sottovalutati.

     

    Inoltre, la difficoltà di innovare a fondo e la sfida di parlare lo stesso linguaggio dei nuovi clienti, sono dirette conseguenze di una conoscenza che non viene condivisa come dovrebbe. Ciò che impariamo e come interpretiamo le informazioni dovrebbero essere patrimonio comune, ma spesso non lo sono.

    Chi può abilitare una trasformazione?

    Per trasformare le culture in azienda, 3 parti devono entrare in dialogo: il Management, l’HR e una rappresentanza di generazioni diverse.

    Serve una leadership inclusiva e sensibile, capace di favorire la mediazione e l’incontro tra persone, che valorizzi i diversi contributi estendendoli in un’unica voce. Allo stesso modo, HR ha bisogno di rivedere i presupposti su cui sviluppa la cura delle persone, dalla selezione, alla valutazione, al dialogo continuo nei team, a strumenti che abilitino una condivisione reale.

    Eleonora, nel tuo ruolo di Client Manager, cosa proponi alle aziende per identificare e capitalizzare punti di forza e aree di miglioramento tra le diverse generazioni in azienda?

    Per prima cosa, organizziamo un workshop che si chiama “Senza età”, come il libro di Diego, per sensibilizzare i leadership team e i manager a scoprire i bias nascosti.

    Poi il nostro approccio fotografa l’azienda con analisi generazionali di clima e focus group a rappresentanza inclusiva, in cui esploriamo anche gli scenari di futuro possibili, con una metodologia consolidata, per individuare quello auspicato e facciamo scegliere i passi da fare insieme per realizzarlo: lo chiamiamo Future- proof horizons strategies e rende già chi partecipa, attore di una co-creazione inclusiva, perciò “nostra”.

    E dopo questa presa di consapevolezza, Lucia, come uscire dai silos e creare un ponte per la co-creazione?

    Lo facciamo con una rappresentanza inclusiva, dove Leadership Team, HR e popolazione aziendale intergenerazionale, co-creano l’Employée Value Proposition. Gruppi di lavoro tematizzati incarnano diverse parti dell’azienda e della sua cultura e sono invitati a catturare e raccontare aspetti della loro organizzazione nel presente e in progressione. Testimoniano valori, pratiche, significati condivisi.

    Seguono i Grounding Action Lab percorsi concreti per passare dalla cultura all’azione, in cui coinvolgiamo gruppi eterogenei, che a partire da obiettivi e aspetti identitari comuni, prima negoziano le linee di indirizzo sugli sviluppi strategici, da integrare nel piano di impresa. Poi, trasformano le priorità di azione in cantieri di progettazione, testing e implementazioni pilota, sperimentabili in contesti controllati e cicli brevi.

    Le generazioni si incontrano e generano insieme. Inoltre, possiamo unire valori e innovazione. Un caso è quello della Value Innovation Week”,  un evento rivolto a tutta la popolazione aziendale, per lavorare sui valori insieme e tramutarli in nuove idee frutto di contaminazione e conoscenza reciproca.

    E non dimentichiamo gli “Age of Value”, percorsi di group coaching per rinnovare l’impulso professionale di chi ha più esperienza, valorizzandone le competenze e stimolando la trasmissione di best practices.

    Come inquadrate le progettualità che sviluppate rispetto alle tematiche generazionali?

    Alimentiamo un’intelligenza intergenerazionale collettiva.

    Diego, come definite l’intelligenza intergenerazionale e quale impatto ha questo approccio sulla cultura aziendale?

     Consideriamo l’intelligenza intergenerazionale individuale come la capacità di riconoscere le diverse prospettive, competenze e valori, della propria e di altre generazioni, armonizzarle e metterle a fattore comune, per trovare soluzioni nuove.

    Hermes Consulting trasferisce sull’azienda tale approccio che riconosce la diversità di età come una risorsa preziosa e non un ostacolo.

    Mettere in pratica un’intelligenza intergenerazionale collettiva, significa creare un ambiente dove l’etica e la cultura valoriale, il sapere esperienziale e le pratiche consolidate, la conoscenza di un ruolo incontrano nuove idee, una mentalità aperta e il rinnovato desiderio di collaborare per un purpose comune.

    Attraverso il dialogo e la collaborazione intergenerazionale, le aziende possono migliorare significativamente la loro capacità di innovare e risolvere problemi in modo creativo. Questo pone le basi per una maggiore armonia interna, un’alta resilienza e la longevità dell’organizzazione.

    Come fare per attivare un progetto con voi?

    Siamo disponibili a incontrare chi fosse interessato e vedere quali soluzioni sono più adatte al suo contesto. Potete scrivere a lucia.grazi@hermesconsulting.com e visitare il nostro sito www.hermesconsulting.it

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  • Dal Codice alla Coscienza: Guidare l’IA verso un futuro senza Bias

    INTRODUZIONE

    In un’era in cui l’intelligenza artificiale (IA) non è più relegata ai confini della fantascienza, ma si manifesta in strumenti quotidiani come assistenti vocali, algoritmi di selezione e piattaforme di e-commerce, dobbiamo chiederci: chi beneficia realmente delle sue capacità?

    Sebbene l’IA prometta innovazioni rivoluzionarie, porta con sé anche il rischio di amplificare i pregiudizi sociali esistenti, inclusi quelli legati al genere e all’etnia. In questo articolo esploriamo i possibili sviluppi dell’IA verso un futuro più equo e inclusivo.

    BIAS: UNA DEFINIZIONE ESSENZIALE

    Prima di procedere ulteriormente, è importante definire il termine “bias”. Nel contesto dell’intelligenza artificiale, il “bias” si riferisce a pregiudizi non intenzionali che possono emergere dai dati usati per addestrare gli algoritmi. Questi pregiudizi possono causare comportamenti non equi o discriminatori da parte delle tecnologie basate sull’IA, spesso riflettendo disuguaglianze sociali preesistenti.

    L’ESSERE UMANO INFLUENZA LA MACCHINA

    L’IA, per quanto avanzata, non è immune all’errore umano. Essa apprende dai dati che noi forniamo e questi dati sono spesso intrisi delle disuguaglianze sociali che caratterizzano la nostra storia e cultura. I pregiudizi di genere, in particolare, sono un problema significativo. Ad esempio, i sistemi di riconoscimento facciale mostrano una precisione del 99% nel riconoscere volti maschili bianchi, ma questa percentuale scende drasticamente quando si tratta di volti femminili di altra etnia, con errori fino al 34% (MIT Media Lab).

    Questo problema si estende oltre la tecnologia di riconoscimento: negli algoritmi di reclutamento, se un sistema è addestrato con dati che riflettono una predominanza di uomini in ruoli di leadership, potrebbe sviluppare un bias verso i candidati maschili. È pertanto essenziale interrogarsi: stiamo permettendo che la nostra tecnologia rinforzi inconsciamente disparità secolari?

    Potremmo far fronte a questo possibile rischio integrando all’interno dei nostri algoritmi set di dati equilibrati e rappresentativi della diversità di genere, etnica e culturale.

    O anche, ad esempio, nel 2021, come oggi, le donne rappresentavano circa il 50% della popolazione mondiale, eppure solo il 22% risulta essere una professionista in IA a fronte della percentuale maschile del 78%. (Deloitte, 2021)

    Cosa significa?

    La bassa percentuale di donne nell’ambiente informatico influenza il modo in cui le IA vengono allenate, implementarne, dunque, la presenza promuovendo una maggiore inclusione nei team di sviluppo delle Intelligenze Artificiali aiuterebbe a mitigare i possibili bias legati al genere.

    Il tocco umano sulle IA non si limita solamente alla fase di input dei dati, ma è un processo continuo, che necessita di revisioni costanti e periodiche, effettuate da team interdisciplinari, che comprendano anche esperti di etica, di scienze sociali e tecnologia.

    Questi team sono cruciali per identificare e correggere bias non intenzionali, che possono sfuggire ai team di sviluppo più omogenei.

    È nella ricchezza dell’integrazione e dell’unione di prospettive differenti che possono essere coltivate correttezza etica ed efficacia pratica delle IA.

    Il perché non è per nulla banale: quando i sistemi sono testati e sviluppati da un gruppo diversificato di persone, le soluzioni risultanti sono maggiormente adatte a un’ampia gamma di applicazioni nella vita reale, includendo mondi a prima vista completamente diversi ma legati da un fattore umano comune.

    Conclusioni

    L’evoluzione dell’intelligenza artificiale (IA) offre immense possibilità di miglioramento della vita quotidiana, ma presenta anche significative sfide etiche. È importante che gli sviluppatori di IA affrontino proattivamente i bias di genere e altre forme di discriminazione.

    Attraverso l’adozione di un approccio inclusivo e responsabile, basato sulla diversità, l’educazione continua e una rigorosa supervisione, l’IA può essere guidata verso uno sviluppo che di cui beneficino equamente tutti i membri della società.  anche vero che la capacità di utilizzare bene questa tecnologia, di conoscerne i limiti e le possibilità, risiede nella coscienza umana. Sta a noi usufruire responsabilmente dell’IA, garantendo che i suoi sviluppi siano impiegati per promuovere equità e giustizia, al fine di evitare o amplificare le disparità esistenti.

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  • Curare i traumi dello Smart Working

    Harvard Business Review Italia

    Parliamo di Smart Working. In che modo questa pratica nata per rigenerare il rapporto tra persone e lavoro, sta creando traumi per le organizzazioni e per le persone. Lo chiediamo a Michela Melchiori, Partner di Hermes Consulting.

    Al di là del suo utilizzo durante l’emergenza della pandemia che lo ha visto come strumento sanitario, lo Smart Working, con la sua nascita, voleva rigenerare il rapporto tra la persona e il lavoro in una prospettiva di co-responsabilità, con l’ambizione di soddisfare contemporaneamente la produttività e l’autonomia che fino a quel momento erano antinomici.

    Ciò che ha sempre caratterizzato il rapporto tra le persone e il mondo del lavoro nei suoi diversi aspetti, è stata la necessità di trovare varie forme di adattamento, con gradazioni di diversa intensità che potevano sfociare anche nello stress o nel burnout, in quei momenti della vita organizzativa che fossero diventati particolarmente complessi per le persone.

    Questa dimensione del disagio però si manifesta anche oggi, benché lo Smart Working sia diventato la normalità: infatti, ora, l’indipendenza dei singoli si scontra con alcune fondamentali dimensioni della vita professionale e del funzionamento delle organizzazioni. Facciamo riferimento al fatto che da anni si cerca di migliorare il lavoro dei gruppi come risposta alla crescente complessità e si cerca di superare il più possibile le barriere funzionali, in una prospettiva di comunità: si investe su inclusione, intelligenza collettiva e cooperazione come risposte necessarie allo sviluppo di organizzazioni flessibili, capaci di affrontare l’incertezza e di rinnovarsi per mantenere o sviluppare quote di mercato.

    Ma oggi è proprio nella maggior autonomia originata dallo Smart Working, che si crea un’incompatibilità nel rigenerare queste dimensioni, dimenticando che la persona non è solo individuo, ma anche appartenenza.

    In molte organizzazioni, perciò, si sta passando da una vecchia forma di alienazione a una nuova, che agisce in negativo sull’empowerment delle persone.

    Anche le neuroscienze confermano questa percezione: le ricerche indicano che la mancanza di interazioni faccia a faccia nello Smart Working, può influenzare i neurotrasmettitori legati alle relazioni sociali. La dopamina, ad esempio, può diminuire con la ridotta connessione sociale, influenzando la motivazione e il coinvolgimento dei membri del team. Inoltre, la mancanza di confini chiari tra vita lavorativa e personale può stimolare il sistema nervoso autonomo, influenzando la produzione di cortisolo e altri neurotrasmettitori coinvolti nella risposta allo stress, che originano nelle relazioni una maggiore aggressività o, al contrario, l’evitamento.

    Se quello che stiamo descrivendo è reale, significa che siamo di fronte ad un possibile paradosso: l’azienda promuove lo Smart Working perché vuole essere più produttiva e invece ottiene una disorganizzazione che rende meno efficiente l’organizzazione stessa, fino a minacciarne la longevità.

    Allora, Dottoressa, alla luce di queste riflessioni, possiamo immaginare di tornare indietro?

    Direi di no, anche se stiamo riscontrando che diverse aziende lo vorrebbero fare. Le persone hanno visto che nel lavoro agile ci sono comunque dei benefici non sostituibili da una compensazione economica e le organizzazioni correrebbero il rischio di perdere valore.

    C’è anche da ricordare che prima della pandemia il senso di appartenenza era profondamente legato a un luogo permeato da una cultura spesso implicita. Oggi, il luogo è sempre più evanescente ed è necessario rendere esplicite le radici culturali e i comportamenti organizzativi per nutrire l’engagement.

    Occorre, quindi, investire per ridurre il rischio di alienazione e stimolare le persone a sviluppare il senso di appartenenza, per riconoscersi comunità che condivide uno scopo e genera valore. Le dimensioni affettive così come quelle negoziali, essenziali per la cooperazione, devono trovare degli spazi fisici in cui emergere e allenarsi in relazioni reali in presenza.

    Possiamo identificare dei bisogni essenziali nella vita dei Team e delle Funzioni che ad oggi rischiano di perdersi con lo Smart Working?

    Lo chiediamo a Francesca Carimati, Client Manager, che sta seguendo lo sviluppo di queste progettualità.

    Dalla nostra esperienza, abbiamo visto che i Team e le Funzioni hanno bisogno di:

    1. Riconoscere il loro momento costitutivo attraverso l’esplicitazione del loro scopo e dei loro valori. Questa azione va rigenerata periodicamente per mantenere la motivazione;

    2. Avere il collante della fiducia tra i membri e questo avviene attraverso dei momenti che facilitano l’incontro di dimensioni intime e umane;

    3. Poter collaborare includendo le persone nonostante la distanza o l’appartenenza a funzioni diverse;

    4. Rifocalizzarsi attraverso un’analisi critica periodica, per trovare le soluzioni nuove da realizzare assieme

    5. Rimanere aperti all’evoluzione, sviluppando una mentalità e delle pratiche per il miglioramento continuo e l’innovazione.

     

    L’osservazione di questi bisogni ha acceso in noi l’esigenza di voler contribuire, anche come Società Benefit, mettendo a disposizione di tutti l’esperienza trentennale di facilitazione con i Leadership Team, ma con un approccio e dei costi compatibili con le esigenze aziendali di estendere gli interventi su molti Team o Funzioni.

    Per questo abbiamo ripreso la metodologia dell’Outdoor Culturale®, capace di integrare in poco tempo dimensioni relazionali e operative, utilizzando esperienze ad alto impatto emotivo con l’ausilio di metafore potenti e laboratori strutturati per accelerare la co-creazione e il problem solving e l’abbiamo sviluppata sulle 5 aree dei bisogni individuati.

    Così sono nati i Regenera-Team®, facili da organizzare e replicabili all’interno dell’organizzazione con un relativo impiego di risorse, realizzabili sia in indoor che in outdoor.

    Questi interventi contengono una tecnologia di accelerazione alla trasformazione che abbiamo creato integrando diversi studi, dalle neuroscienze all’arte. Sono dei veri momenti di trasformazione nei quali, le problematiche di cui abbiamo parlato, trovano risposte grazie agli stimoli e alla facilitazione da parte di esperti che, aggregando energie e menti, favoriscono il rafforzamento dello spirito della squadra.

    Dalla nostra esperienza sappiamo che le persone li apprezzano molto, perché non erodono il valore del tempo privato e con la facilitazione e la metodologia che assicuriamo, ottengono ottimi risultati in breve tempo. Ecco il cambiamento: dal vivere molti momenti a bassa intensità nel quotidiano, al creare dei momenti ad alta intensità, che sono veri e propri abilitatori per i gruppi che desiderano coltivare la loro vitalità.

    Con l’intelligenza artificiale possiamo considerare questi bisogni superati?

    Al contrario, perché l’Intelligenza Artificiale accentuerà il bisogno delle organizzazioni di differenziarsi. Sappiamo che le tecnologie sono tutte acquistabili, se non nel breve, nel medio termine. L’unica cosa che può far emergere l’organizzazione dall’oceano rosso della competizione è il contributo dell’essere umano; ma quell’apporto, per rendere riconoscibile un’organizzazione, deve essere fondato e coerente con la cultura dell’organizzazione stessa. Quindi è ancora più necessario creare le condizioni affinché le persone e i team sostengano l’identità e lo scopo dell’organizzazione.

    Come possono contattarvi le aziende per avere il vostro aiuto?

    Potete scrivere a me e Michela a questi indirizzi mail: michela.melchiori@hermesconsulting.com e francesca.carimati@hermesconsulting.com

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  • ERRARE HUMANUM EST: LE ILLUSIONI OTTICHE E LE NEUROSCIENZE RISPONDONO

    INTRODUZIONE

    Nel viaggio della continua evoluzione, gli errori, dovrebbero essere considerati come alleati di una logica costruttiva, traendo, da essi, preziose lezioni.

    Esaminiamo come sia possibile per le persone e le organizzazioni riconfigurare la percezione degli errori, trasformandoli da fonti di frustrazione in catalizzatori di innovazione e sviluppo, attingendo, ad esempio, dalle neuroscienze.

    TRA INTUIZIONE E ANALISI CRITICA: LA DUALITÀ DEL PROCESSO DECISIONALE

    L’origine degli errori è nel processo decisionale, ovvero scelte che chiedono un costante bilanciamento tra intuizione e analisi critica.

    Spesso sono i bias cognitiviautomatismi mentali dai quali si generano credenze e da cui si traggono decisioni veloci che impattano, nella quotidianità, non solo su decisioni e comportamenti ma anche sui processi di pensiero che interferiscono nella dualità tra intuizione e analisi razionale.

    Le decisioni allora diventano automatiche perché basate e influenzate da esperienze passate.

    La sfida è creare ambienti che favoriscano una riflessione senza distorsioni, supportando un processo decisionale che abbia origine da una mentalità aperta che valuti diverse prospettive e consideri tutte le informazioni disponibili, trasformando così il processo decisionale in un’opportunità di crescita e apprendimento dove la dualità tra intuizione e analisi si possa esprimere più autenticamente.

     

    ERRORI E ILLUSIONI OTTICHE: COME PERCEPIAMO LA REALTÀ

    Un modo in cui interpretare gli errori ci viene offerta dallo studio delle illusioni ottiche, in particolare dall’esempio del quadrato di grigio. Questa illusione, ampiamente studiata da psicologi della percezione come Edward H. Adelson, mette in luce come il nostro cervello elabori le informazioni visive in modo che la percezione del colore possa essere drasticamente influenzata dal contesto circostante.

    Nell’illusione del “checker shadow”, per esempio, due caselle di un damier, una in ombra e l’altra no, appaiono di tonalità diverse nonostante siano effettivamente dello stesso colore grigio. Questo accade perché il nostro sistema visivo interpreta le caselle tenendo conto della loro relativa luminosità all’interno del contesto, dimostrando così la nostra tendenza a fare “inferenze inconsce” per decodificare la realtà visiva. (Clicca sul link e guarda il video dimostrativo)

    Il motivo per cui il nostro cervello compie queste sorprendenti elaborazioni visive risiede nella sua costante ricerca di coerenza e significato nell’ambiente che ci circonda. Di fronte a informazioni ambigue o incomplete, il cervello fa del suo meglio per “riempire i vuoti”, spesso basandosi su presupposti derivati da esperienze passate o dal contesto immediato. Il lavoro di Adelson e di altri studiosi in questo campo sottolinea non solo la complessità della nostra percezione visiva ma anche come la nostra interpretazione della realtà possa essere facilmente influenzata da fattori esterni.

    È già chiaro il potente parallelismo con il modo in cui affrontiamo il processo decisionale nella nostra vita e nel nostro lavoro.

    Proprio come il cervello può essere tratto in inganno da un’illusione visiva, così le nostre decisioni e giudizi possono essere distorti da pregiudizi cognitivi, esperienze passate o il contesto in cui ci troviamo.

     

    Riconoscere questa tendenza alla “percezione selettiva” è il primo passo per sviluppare una maggiore consapevolezza e capacità critica indispensabili per apprendere da un errore generato da una decisione che ci sembrava, tuttavia, opportuna.

     

    DA OSTACOLI A OPPORTUNITÀ: APPRENDERE DAGLI ERRORI

    La percezione e la gestione degli errori all’interno delle organizzazioni sono fortemente influenzate dalla cultura aziendale.

    Un ambiente che interpreta l’errore come una preziosa occasione di apprendimento incoraggia la sperimentazione, la resilienza e l’innovazione.

    La chiave sta nel promuovere una cultura che tollera gli errori e li vede come parte integrante del processo di apprendimento e crescita.

    Occorre anche incoraggiare la condivisione aperta degli errori e l’analisi collettiva delle loro cause, al fine di trarne insegnamenti utili per il futuro.

    Questo approccio non solo facilita il miglioramento continuo ma contribuisce anche a creare un senso di fiducia, appartenenza e coesione tra i membri del team, fondamentali per un ambiente lavorativo stimolante e produttivo.

     

    LE RADICI DELL’AVVERSIONE AL RISCHIO

    Dalla parte opposta di quanto detto fino ad ora troviamo l’avversione al rischio, strettamente legata alla paura di commettere errori perché commettere errori significa essere esposti al giudizio.

    Questa situazione vincola negativamente l’originalità e l’assunzione di rischi.

    In letteratura è stato ampiamente dimostrato che le risposte cerebrali alla paura sono le 3F:

    1. FLY(Scappare)
    2. FIGHT(Combattere)
    3. FREEZE(Congelarsi)

    A scuola, ad esempio, i nostri insegnanti ci hanno sempre incoraggiato a superare i test commettendo il minor numero di errori possibile piuttosto che cercare soluzioni personali o frutto di ragionamenti condivisi potendo, evidentemente, contemplare degli errori.

    Gerd Gigerenzer, psicologo tedesco, parla di una “cultura dell’errore”, in cui sia possibile ammettere apertamente di avere sbagliato, così da imparare dai propri errori essendone quindi consapevoli.

    Potremmo a questo punto imparare da coloro che, soprattutto nel mondo imprenditoriale, sono molto più avanti nell’attribuire valore agli errori.

    Un esempio è la cultura americana, caratterizzata da una naturale inclinazione verso un processo di tentativi ed errori, dove lo sbaglio non è visto come motivo di vergogna.

    È noto infatti che nei grandi centri di innovazione americani, come la Silicon Valley, l’errore è percepito come qualcosa di ordinario e normale, da cui però, senza sottovalutarlo, è necessario imparare, elaborare e migliorare.

    In questo contesto, il fallimento di un progetto non viene percepito come un’onta indelebile, ma come un punto di forza (e di esperienza) dal quale ripartire mettendo a disposizione di quella dualità del processo decisionale tutta l’energia necessaria per trovare una nuova decisione da prendere.

    Chissà che non sia proprio questa consapevolezza del valore dell’errore uno dei “segreti” che rende la Silicon Valley uno dei centri di riferimento globale per l’alta tecnologia e l’innovazione

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  • Adulti in Azienda: La Rivoluzione del Lavoro che Serve Ora

    Di Daniela Oliboni e Gianandrea Iapichino

    Il futuro ci sta raggiungendo, e questa volta sembra essere in anticipo.

    Il CEO ci guarda negli occhi e chiede: “Siamo pronti?”

    Ma per cosa?

    Pronti a sfidare i paradigmi esistenti, ad abbracciare un nuovo modo di pensare e agire di fronte alla rapida evoluzione del panorama aziendale.

     

    Perché, in effetti, non si tratta solo di capitalizzare le funzioni dei sistemi tecnologici acquistati dal CIO.

    Il tempo presente mette in discussione la stessa visione del lavoro e dell’organizzazione e chiede di adottare una mentalità più aperta e fiduciosa verso le persone e gli strumenti che possono aiutarci.

     

    Perciò possiamo dire che ci troviamo di fronte all’esigenza di sostituire vecchie credenze limitanti con visioni e credenze nuove, con le quali modellare questa realtà.

    Quando parliamo di credenze, ci riferiamo a quei pensieri che settano i perché della realtà che osserviamo.

    Spesso questi perché sono legati ad un passato antropologico e sociale: l’individualismo e il capitalismo, enfatizzando l’interesse personale e il profitto, alimentano l’idea di una netta separazione tra bene della proprietà e quello dei dipendenti. Il dualismo cartesiano e il management scientifico Tayloristico promuovono una visione meccanicistica e gerarchica del lavoro, dove chi pensa e progetta è separato da chi esegue e mette a terra.

     

    Facciamo esempi di credenze oggi ancora molto diffuse:

    “I dipendenti lavorano duro solo per i bonus.”

    “I manager decidono, i dipendenti eseguono. Questo è cruciale per l’efficienza.”

    “La standardizzazione dei compiti massimizza la produttività.”

    “Le decisioni importanti richiedono la mia approvazione.”

    “Concentrarsi sui risultati a breve termine è più pragmatico che seguire visioni astratte.”

    “Se le persone fanno lo smart working, non lavorano.”

     

    Riconosciamo in queste convinzioni l’applicazione delle precedenti correnti di separazione che originano una divisione tra “genitore che guida” e “bambini che eseguono”. Mancano gli adulti sul palcoscenico del presente.

     

    Ricordiamo a noi stessi che essere adulti significa essere capaci di autonomia, di responsabilità e contribuire attraverso opere creative a far evolvere la realtà.

    Essere adulto significa accogliere l’altro in un incontro generativo, non solo alimentato da aspettative. Significa vedere l’impatto del proprio agire, diversamente da come farebbe un bambino. Significa essere presente, parte attiva e responsabile, oltre il dimostrare o rendicontare.

     

    Possiamo dirci che ancora gli approcci prevalenti nell’organizzazione del lavoro si basano sulla diffidenza verso gli “adulti”, introducendo sistemi disciplinanti, intesi a circoscrivere e contenere la responsabilità e la capacità generativa?

     

    Molte aziende hanno seguito il cambiamento presente preoccupandosi solo di adempiere a nuove leggi a sostegno di modelli più fluidi e integrati, ma non hanno modificato forme e processi, perché quei leader hanno mantenuto stili manageriali “disciplinanti”, anziché di co creazione. Questi approcci già limitavano fortemente il potenziale produttivo delle aziende prima della diffusione pervasiva delle tecnologie digitali.

     

    Oggi, di fronte all’AI accompagnata dal machine learning, si rischia non solo di schiacciare l’individuo che non è trattato come adulto, ma di eliminare dall’azienda la stessa possibilità di fare innovazione. In altri termini, senza gli adulti, ciao ciao al vantaggio competitivo.

     

     

    Forse, la credenza bloccante l’evoluzione del nostro sistema è quella che la creazione di valore risulti dalla negoziazione tra posizioni di “bene privato”, come teorizzava Adam Smith. E una conferma a questa ipotesi è nel crescente numero di organizzazioni che mettono nelle loro agende la sostenibilità, senza comprenderne il beneficio comune.

     

    Ma che cos’è la sostenibilità se non una dimensione del Bene Comune?

    Ed è proprio il Bene Comune la credenza da scegliere, perché è qui che leader e collaboratori si possono incontrare come adulti, portando ancora una volta ognuno la propria dimensione di bene privato ma nella prospettiva di tenere solo quelle parti che possono contribuire alla creazione di un futuro sostenibile per tutti.

    Trattiamoci da adulti, co-creaiamo, così bilanciamo la prevedibilità dell’algoritmo, con l’imprevedibilità umana, “disciplinata” da un patto per il Bene Comune che la orienta interiormente e abilita il futuro.

     

     

     

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  • IL SENSO DI SICUREZZA E L’EREDITÀ DI BRUNELLESCHI

    INTRODUZIONE

    Nella Firenze del XV secolo, Filippo Brunelleschi si trovava di fronte a un’impresa senza precedenti: costruire la cupola del Duomo di Firenze, un progetto che avrebbe richiesto non solo ingegnosità architettonica ma anche un nuovo approccio alla gestione del lavoro.

    Il punto di partenza era: “Come riuscire a costruire la Cupola e riducendo al minimo i rischi, data la forma particolarmente complessa e ancora incompiuta rispetto al resto dell’edificio?”

    Quando la cupola raggiunse il punto di massima curvatura, la salita e la discesa, anche più volte al giorno, dalla stessa, divennero seriamente difficoltose, gli operai dovevano affrontare il periglioso viaggio verso il suolo e viceversa. Data la situazione impervia e pericolosa, Brunelleschi, con una visione pioneristica per quei tempi, istituì la prima mensa lavorativa a 104 metri di altezza, riducendo le discese e le risalite durante l’arco della giornata.

    Questa soluzione, apparentemente semplice, rifletteva una profonda comprensione delle esigenze umane e della gestione efficiente delle risorse. Brunelleschi non solo ottimizzò il tempo e l’energia degli operai, ma migliorò anche il loro benessere, dimostrando una cura e un rispetto per il lavoro e la persona che, sebbene oggi possano sembrare ovvie, all’epoca rappresentò un approccio rivoluzionario.

    Questo gesto, fra tanti altri, anticipò i principi di ergonomia e di sicurezza sul lavoro, ponendo le basi per quello che oggi chiamiamo welfare aziendale, un concetto che sottolinea come la cura dei lavoratori sia direttamente collegata alla produttività e alla qualità del lavoro svolto. In questo modo, Brunelleschi non solo lasciò al mondo un capolavoro architettonico, ma anche una lezione senza tempo: per edificare grandi cose, prima di tutto, dobbiamo assicurarci che le fondamenta siano solide e resistenti ma al contempo occorre valutare in ogni dettaglio il modo con cui le persone che vivono i luoghi di lavoro si adoperano.

     

    LA SICUREZZA PSICOLOGICA COME BASE DEL BENESSERE ORGANIZZATIVO

    Da quando nasciamo e apriamo gli occhi, a quando muoviamo i primi passi, chi ci circonda si preoccupa di rendere l’ambiente in cui agiamo sicuro.

    PIRAMIDE MASLOW E CUPOLA

    La sicurezza rientra tra i bisogni fondamentali dell’essere umano, subito dopo le necessità fisiologiche, come mangiare e dormire. Questo è ciò che descrive A. Maslow con la sua Piramide dei Bisogni.

    L’organizzazione che valorizza la sicurezza psicologica crea l’ambiente giusto nel quale le persone si sentono incoraggiate a condividere le proprie opinioni, a sperimentare e, soprattutto, a imparare dagli errori.

    Il senso di protezione lo cerchiamo anche in altri contesti della nostra vita, come ad esempio nell’ambiente lavorativo, all’interno del quale le persone vogliono sentirsi sicure, libere da minacce fisiche e psicologiche. Solo nel momento in cui tale livello di sicurezza è garantito, emergono creatività, disponibilità all’innovazione e l’impegno autentico al cambiamento.

    Proprio come il bambino che conta sul supporto dei caregiver che gli assicurano lo spazio di esplorazione, azione e interazione nel quale muoversi.

    La “sicurezza psicologica” è un concetto introdotto da Amy Edmondson, professoressa di leadership e gestione alla Harvard Business School, definendola come: “La convinzione di poter esprimere liberamente idee, dubbi, preoccupazioni o errori senza timore di penalizzazioni o umiliazioni”.

    Questo ambiente di apertura e fiducia è il terreno fertile in cui normalmente germogliano innovazione e collaborazione.

    Si accelera così il processo di apprendimento collettivo e si rafforza anche il senso di appartenenza, di coesione interna, di squadra.

    Un ambiente sicuro dal punto di vista psicologico richiede un impegno costante da parte dei leader aziendali che dovranno essere agenti attivi per lo sviluppo di una cultura condivisa volta al rispetto reciproco e all’inclusività. Significa anche riconoscere e valorizzare il contributo di ogni singolo individuo, incoraggiando una comunicazione aperta e senza filtri.

    Così si costruiscono solide fondamenta e un benessere organizzativo efficace e produttivo, del tutto molto simile a quanto sperimentato da Brunelleschi per erigere la sua cupola.

    Il Nuovo Rinascimento del Benessere Aziendale

    Potremmo definirlo così quindi, le aziende, per costruire i loro successi economici dovranno costruire anche ambienti di lavoro che favoriscano il benessere e la realizzazione personale dei loro collaboratori ovvero assicurare un ascolto psicologico per comprendere i bisogni e liberare tutto il potenziale creativo ed energetico dei propri collaboratori.

    La domanda che ogni leader dovrebbe porsi è: “Come posso contribuire a costruire una “cupola” del benessere nella mia organizzazione, seguendo l’esempio di Brunelleschi?”

    La risposta a questa domanda non è semplice, ma riuscirci significherebbe tracciare un percorso verso un futuro del lavoro ispirato, sicuro, pienamente umano e di successi aziendali.

     

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  • Volto umano con sfere colorate

    NESSUNO SOSTITUISCE NESSUNO

    INTRODUZIONE

    L’orbita dell’evoluzione dell’Intelligenza Artificiale (AI) Generativa segna un punto di svolta nella storia del lavoro. Tecnologie che un tempo erano ritenute appannaggio esclusivo della fantascienza stanno ora entrando nella nostra realtà quotidiana, alterando radicalmente i modelli di business, le professioni e le competenze lavorative.

    GLI IMPATTI

    Charlene Li, una delle massime esperte di strategia aziendale e tecnologie digitali, ha evidenziato, nella sua vasta esperienza e i suoi molteplici studi, come l’AI generativa non sia soltanto un’evoluzione tecnologica, ma rappresenti una vera e propria rivoluzione, capace di creare una “mega trasformazione” nel mondo del lavoro.

    Questa tecnologia non solo migliorerà l’efficienza in alcuni compiti, superando la capacità umana in velocità e precisione, ma modificherà anche radicalmente i ruoli lavorativi, creando nuove professioni e richiedendo una riqualificazione significativa della forza lavoro attuale.

    Inizialmente, i ruoli più impattati includeranno copywriter, gestori di social media, operatori di call center e assistenti legali, richiedendo competenze aggiuntive per la revisione e l’ottimizzazione dei contenuti generati dall’AI.

    Le statistiche suggeriscono che entro 18 mesi i 2/3 dei lavoratori modificheranno significativamente il proprio lavoro.

    Valigetta da lavoro con il mondo alle spalle

    L’introduzione dell’AI nel quotidiano lavorativo sta rivoluzionando la tradizionale concezione di “lavoro” basato su mansioni ripetitive e a basso valore aggiunto. Robotica e sistemi intelligenti assumono su di sé questi compiti, liberando risorse umane per dedicarsi a ruoli che richiedono creatività, pensiero critico e sensibilità emotiva.

    Un esempio?

    Nel settore della customer experience l’AI gestisce le interazioni di routine, permettendo, così, agli addetti di concentrarsi su casi più complessi e su una personalizzazione del servizio che solo l’intuito umano può offrire.

    La transizione da compiti operativi a quelli strategici e creativi sottolinea l’importanza dell’aggiornamento professionale e dell’apprendimento continuo.

    L’integrazione dell’AI nel core business delle aziende sta catalizzando la nascita di professioni inedite, intrinsecamente legate alla gestione e all’analisi dei dati, alla sicurezza informatica e allo sviluppo di soluzioni basate su machine learning.

    Una delle figure che sta emergendo con immensa velocità è quella del “Prompt Designer”, un esperto che si occupa di inserire gli input necessari ad ottenere l’efficientamento degli output dell’AI, e diversamente dai programmatori che immaginiamo, dominano competenze poco tecniche e molto trasversali, quali ad esempio: creatività, formazione trasversale, open mindset, chiarezza e concisione, capacità di testare e valutare, attitudine al miglioramento continuo, conoscenza dei bias dei dati.

    La figura nascente dell’esperto in etica dell’AI, invece, riflette la crescente necessità di guidare lo sviluppo e l’impiego delle Tecnologie Intelligenti all’interno di un quadro etico e normativo chiaro e condiviso, garantendo che l’innovazione proceda di pari passo con il rispetto dei principi di equità e trasparenza.

    NESSUNO SOSTITUISCE NESSUNO

    Il cambiamento indotto dall’AI generativa sottolinea l’importanza cruciale del pensiero critico e di riqualificazione e acquisizione di nuove competenze per

    posizioni diverse all’interno delle organizzazioni.

    Ognuno sarà chiamato ad essere Project Leader del proprio operato, apprendendo come guidare e dare indicazioni piuttosto che fare. Ognuno sarà maggiormente responsabile del proprio lavoro, del proprio sviluppo, dei dati che condivide con la macchina.

    L’invito per le aziende oggi è essere proattive nell’affrontare la trasformazione guidata dall’AI generativa.

    È fondamentale che i leader aziendali inizino a pianificare sin da ora come questa tecnologia influenzerà la loro strategia, la forza lavoro e l’esperienza cliente, preparandosi ad un cambiamento che, secondo le stime, inizierà a manifestarsi in modo significativo tra poco più di un anno, ma già è diffuso in ogni media.

    Sarà fondamentale, per lo sviluppo di questa trasformazione, che le persone non vedano nell’AI una minaccia, piuttosto un’alleanza strategica al proprio efficientamento e alla propria crescita. All’interno di un perimetro definito, la sfida sarà, dunque, quella di sperimentare, testare soluzioni, apprendere come il proprio mestiere possa essere potenziato.

    Emergono in modo chiaro nuovi bisogni.

    Indipendentemente dal ruolo, tutti i membri dell’organizzazione devono essere preparati a interagire con l’AI. Ciò richiede una cultura di trasparenza, dove le decisioni e le strategie relative all’AI sono comunicate apertamente, e dove c’è spazio per feedback e dialogo. Soprattutto per le domande. Dove si ha fiducia, si promuove l’autonomia, si accetta anche lo spazio dell’incertezza e della vulnerabilità. La co-partecipazione nel processo di integrazione dell’AI aiuta a mitigare le paure e le ansie, promuovendo un ambiente in cui tutti si sentono valorizzati e parte integrante del futuro dell’organizzazione. Questo non è un cambiamento che può avvenire dall’alto ma piuttosto è la sinergia tra le persone che può espandere a dismisura lo sviluppo di un’organizzazione.

     

    RISPONDERE E PERCORRE L’EVOLUZIONE

    È fondamentale oggi sviluppare piani di trasformative learning che rispondano concretamente ai bisogni emergenti, promuovendo il pensiero critico, l’adattabilità, e la capacità di lavorare efficacemente con l’AI. Ma prima di tutto sarà necessario un cultural change delle aziende, che si espanda coinvolgendo tutte le persone, prima di tutto nello stabilire una cornice culturale che funga da bussola nell’utilizzo di questi strumenti e poi un perimetro che aiuti ogni partecipante a sperimentare.

    CONCLUSIONI

    Il futuro del lavoro si prospetta come un ecosistema in cui l’intelligenza umana e artificiale coesistono e cooperano per superare i limiti dell’innovazione. Questa sinergia non solo potenzia la produttività ma arricchisce anche il lavoro di dimensioni creative e strategiche prima inesplorate. In questo contesto, l’AI non è vista come un sostituto dell’uomo ma come uno strumento per esaltare e completare le capacità umane, spianando la strada verso un futuro lavorativo collaborativo, stimolante e ricco di opportunità.

     

     

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  • Uovo rotto con germoglio di pianta

    CHE FORZA ESSERE DEBOLI!

    Qual è la rappresentazione più comune di un team di direzione?

    Siamo abituati a immaginare un gruppo altamente competente nel suo settore, con la capacità di guidare le persone nell’operatività del loro lavoro, con il carisma di comunicarne il senso, con l’abilità di decidere anche in condizioni di grandi difficoltà.

    Qualcuno di loro si racconta anche come solo, perché in questa complessità svelarsi è difficile. È difficile mostrarsi vulnerabile, quando hai la responsabilità di essere una colonna portante.

    Oggi, abbiamo accompagnato un team di Direzione a fare un atto di coraggio profondo.

    Un atto di fiducia, gli uni nei confronti degli altri.

    Abbiamo fatto scrivere loro su un foglio di carta le proprie debolezze per donarlo alla propria squadra.

    Ma facciamo un piccolo salto indietro.

    Che cosa sono le debolezze?

    Essere deboli significa allontanarsi dall’idea di avere il controllo su ogni cosa. Significa accettare che in alcune cose è necessario l’aiuto di qualcuno.

    Siamo da sempre abituati a immaginarci e rifletterci nell’ideale di “persona forte”.

    Ecco perché debolezza e difetto per molti di noi si assomigliano tanto da sembrare sinonimi. Nel linguaggio usiamo il secondo termine moltissime volte come sostituto del primo.

    Vogliamo invece spendere una parola su cosa significa essere deboli; sull’importanza della nostra fragilità come risorsa di inestimabile valore.

    Prima di tutto ogni debolezza è un punto di partenza.

    Se ci pensiamo il piccolo germoglio esposto al vento e alle intemperie è estremamente fragile. Ma questa condizione è necessaria, ai fini della sua trasformazione in una quercia millenaria. Se fosse duro, resistente, fin dal principio non avrebbe margini di sviluppo.

    QUERCIA E GERMOGLIOBasti pensare alla forza rappresentata dalla pietra, che per anni e anni, rimane costante nella sua forma.

    Accogliere le nostre debolezze ci permette di disfarci di un guscio che non ci consente di espanderci. Rotto quel guscio abbiamo la possibilità di crescere, di trasformarci, di avviare un percorso nuovo.

    La debolezza è l’origine e la sostanza della forza relazionale; crea e conserva legami puri e profondi. Le persone che scegliamo di accogliere nella nostra vita e alle quali teniamo maggiormente sono quelle che conoscono le nostre vulnerabilità e che ci hanno rivelato le proprie.

    Così riusciamo a sentirci liberi di poter esprimere i nostri dubbi e di confidare i nostri errori, perché acquisiamo la consapevolezza che l’eccellenza più alta a cui aspirare non è quella del collega che non riusciamo a emulare.

    Così ci spostiamo dalla competizione e dal confronto sociale per tendere alla vera collaborazione.

    Nessuno di noi è forte in ogni cosa e scoprire il tallone di Achille dell’altro ci fa sentire meno sbagliati, più vicini, più desiderosi di conoscerci in profondità, di andare oltre per aiutarci e sostenerci.

    Essere vulnerabili ci rende capaci di comprendere in profondità le difficoltà degli altri ed essere gentili con noi stessi, accogliendo anche ciò che più di noi non ci sembra perfetto.

    La debolezza è anche una preziosissima fonte di apprendimento e di crescita quando diventa consapevole, poiché ci consente di lasciare andare qualcosa e di aprire spazio a possibilità nuove.

    Non è un caso se ogni rivoluzione inizia con il coraggio di riconoscere le proprie fragilità. L’insoddisfazione per il proprio status quo è la più grande spinta al progresso.

     

    Cosa succede quando un leadership team dichiara apertamente le proprie debolezze?

    Lo abbiamo visto succedere in tante aziende e questo è quello che è accaduto.

    La condivisione delle reciproche fragilità ha consentito una trasformazione fondamentale nella dinamica del gruppo e lo sviluppo di un ambiente ricco di fiducia e autenticità.

    Mani che si stringono

    La collaborazione è cresciuta davvero: con la consapevolezza delle aree di crescita di ciascuno, i membri del team hanno pianificato di lavorare insieme per compensare i rispettivi punti deboli, sfruttando i punti di forza di ognuno. Questo approccio sinergico sta portando decisioni più ponderate e un progresso collettivo verso il futuro desiderato.

    Oggi questi team hanno sposato una cultura di apprendimento e sviluppo personale. Inviano un messaggio forte all’intera organizzazione: è normale non essere perfetti, e c’è sempre spazio per crescere e migliorare.

    Un altro risultato evidente è stato un miglioramento nell’innovazione e nella risoluzione dei problemi. Con la consapevolezza delle debolezze altrui, le persone hanno iniziato a sostenersi a vicenda, offrendo il proprio unico set di abilità e competenze.

    Abbiamo anche assistito a un aumento dell’empatia e del sostegno reciproco. Questa onestà e richiesta di supporto ha portato tra le persone un maggiore livello di intimità e comprensione reciproca.

    La condivisione delle vulnerabilità ha creato un ambiente più umano e premuroso, una maggiore soddisfazione sul lavoro e a un morale più alto, dove ciascuno si è sentito valorizzato e compreso.

    Dal punto di vista della leadership, c’è stata una trasformazione nella percezione e nell’approccio. I leader sono diventati più accessibili e umili, il che ha rafforzato il rispetto e la fiducia da parte dei loro team.

    Hanno dimostrato che la leadership non riguarda la perfezione, ma piuttosto l’apprendimento, la crescita e la guida attraverso l’esempio.

    Soprattutto, abbiamo osservato una crescita personale e professionale significativa di tutti. Confrontarsi con le proprie debolezze e imparare dagli altri ha portato a un miglioramento nelle competenze individuali e a una maggiore autostima. Questo processo ha contribuito a sviluppare futuri leader all’interno dell’organizzazione, pronti ad affrontare sfide con una mentalità più aperta e collaborativa.

    In sintesi, questo viaggio verso la condivisione delle vulnerabilità ha non solo migliorato l’efficacia dei team, ma ha anche creato un ambiente di lavoro più sano, più solidale e più produttivo. È stato un passo fondamentale verso la creazione di organizzazioni più resilienti e adattabili ai cambiamenti e alle sfide del futuro.

    UOVO CON GERMOGLIO COLORATO

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  • Navigare Insieme verso il Successo: Strategie di Team Building Essenziali per tendere all’orizzonte

    Ottimizzare la Coesione di Squadra: Un team building sulla cresta dell’onda

     Già vent’anni fa il mondo contemporaneo era stato descritto come VUCA, volatile, incerto, complesso, ambiguo. Oggi a questa riflessione è stata aggiunta quella riassunta nell’acronimo BANI, Brittle ossia fragile, Ansioso, Non lineare, talvolta incomprensibile.

    Insieme queste teorizzazioni ci suggeriscono una vista difficile sul futuro, sia guardando da fuori, che guardandoci dentro.

    Le organizzazioni si trovano a dover affrontare un ambiente imprevedibile e in costante mutamento dove la complessità è tale da non rendere sufficiente una semplificazione, piuttosto necessita di uno sguardo sistemico in grado di cogliere segnali sottili e pattern ricorrenti. Questo scenario globale richiede una navigazione attenta e strategica nella nebbia, simile a quella di un velista che affronta mari in tempesta, dove ogni raffica di vento può cambiare le regole del gioco improvvisamente ed è indispensabile riconfigurare la rotta quando necessario.

    La barca a vela diventa così una metafora potente per le aziende di oggi: solo con resilienza, agilità e una squadra che si muove in sinergia come un corpo unico, verso un obiettivo comune, si possono affrontare e superare le onde.

     Ma quali strategie possiamo adottare per rafforzare queste qualità essenziali nei team?

    Presentiamo qui il caso di un team di Ricerca e Sviluppo, il cui compito è quello di traghettare l’azienda di cui fa parte verso il futuro tecnologico e sostenibile. È in continua interazione con realtà e personalità diverse, in un panorama mutevole dove la sua capacità di guida sinergica è indispensabile.

    Per orientare e sostenere il futuro dell’organizzazione, è fondamentale che ogni membro del gruppo condivida una strategia comune e si senta parte di un’unica entità. Noi abbiamo accompagnato ciascuno di loro in un’esperienza di team building sulla barca a vela: un’opportunità per rafforzare l’identità della squadra e promuoverne la collaborazione.

     

    La Navigazione come Paradigma Organizzativo

    La squadra ha scelto di “Navigare verso il futuro”La barca, se la intendiamo come il microcosmo di un’organizzazione, e non soltanto un veicolo, ci delinea in modo chiaro che ogni componente ha un ruolo definito e che il successo della missione dipende dalla perfetta armonia tra queste parti. Si riesce a mantenere la rotta solo se ogni membro dell’equipaggio ha la capacità di eseguire il proprio compito in sintonia con gli altri.

    La navigazione in mare aperto è anche uno stimolo ad essere flessibili e a cogliere l’incertezza, il caos, l’assenza di confini e l’orizzonte allo stesso tempo. È un continuo esercizio di problem solving per la risoluzione di imprevisti, uno spazio sospeso per coltivare uno sguardo nuovo, aperto, creativo e orientato alla possibilità.

     

    Competizione e Collaborazione: Il Concetto di “Cum-Petizione”

    Il team building era fondato sul principio della “cum-petizione” che richiama insieme competizione e collaborazione e riporta l’attenzione sull’etimologia del significato di “competere”: “andare avanti insieme” o “cercare insieme”.  Sia in mare che nel business, le sfide sono continue e imprevedibili. La cum-petizione guida le persone a stimolarsi reciprocamente verso l’eccellenza, mantenendo sempre l’obiettivo di progredire all’unisono.

     La Metafora della Barca per il Team Building

    In un panorama aziendale che si evolve velocemente, l’adattabilità e la collaborazione sono cruciali. Quale miglior modo per sperimentare questo se non su una barca, dove ogni decisione, grande o piccola, ha un impatto diretto sull’intero equipaggio?

    In mare, ogni marinaio è essenziale. Non c’è spazio per l’isolamento o la divisione; ogni azione, ogni decisione, ha ripercussioni immediate sul gruppo. Navigare richiede una comunicazione chiara, una fiducia incondizionata e una comprensione profonda dei propri compagni di squadra. Ogni onda, ogni cambiamento di vento, rappresenta le sfide impreviste che incontriamo quotidianamente.

    Proprio come in azienda, su una barca non si può semplicemente “uscire” quando le cose si fanno difficili.

    Si deve trovare una soluzione, lavorare insieme e navigare attraverso le sfide.

    Durante la traversata, i partecipanti non erano solo spettatori passivi. Avevano la libertà di scegliere e pianificare la rotta, adattandosi alle condizioni mutevoli e impreviste. Questo ha promosso una vera mentalità di squadra, dove la collaborazione e dialogo si sono rivelati essenziali.

    Molte decisioni sono state prese rapidamente e sotto pressione, negoziare non è stato sempre facile, ma al superamento di ogni ostacolo è seguito sempre un momento di trionfo comune.

    Alla fine del viaggio i partecipanti, non solo hanno rafforzato i propri legami come team, ma hanno anche sperimentato una nuova fiducia gli uni verso gli altri, uno stile di leadership inedito, una forte dose di coraggio e una strategica attitudine al problem solving.

    Uno degli elementi chiave è stata continua rotazione dei ruoli all’interno dell’equipaggio, che ha permesso a ciascun partecipante di sperimentare diverse responsabilità e di mettersi nei panni degli altri. Questo processo ha favorito la flessibilità e la consapevolezza del fatto che ogni incarico ha un impatto profondo, diretto o indiretto, sul sistema.

     

    Obiettivi e Risultati

    Il programma di team building mirava a consolidare le relazioni, a promuovere una mentalità orientata alla crescita e a sviluppare una leadership collettiva che guarda al futuro. Ogni attività e decisione presa durante la navigazione è stato un passo concreto verso il raggiungimento di questi obiettivi e uno specchio del funzionamento della squadra.

     

    Benefici Neuroscientifici della Navigazione

    La navigazione non è solo una metafora potente per le dinamiche aziendali, ma anche un’attività che, secondo le neuroscienze, offre benefici tangibili. L’ambiente marino stimola la produzione di neurotrasmettitori che riducono lo stress e aumentano il benessere, la concentrazione e l’apertura all’esplorazione, mentre la necessità di prendere decisioni rapide e di adattarsi alle condizioni in continuo cambiamento migliora le capacità cognitive e promuove la neuroplasticità cerebrale.

    Conclusione

    L’esperienza di team building in barca a vela si è rivelata non solo un potente esercizio di costruzione del team, ma anche un’immersione in un ambiente che promuove il benessere mentale e la crescita personale. Questa avventura ha rafforzato l’identità di squadra e ha sottolineato l’importanza della collaborazione per guidare il futuro dell’azienda.

     

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  • Il Passato Stereotipato, il Presente Inclusivo e il Futuro Plastico della Diversità

    INTRODUZIONE

    Quanto spesso sentiamo parlare di Diversity & Inclusion, ma che rapporto abbiamo con questo binomio nominato così frequentemente? Come reagisce il nostro cervello di fronte alla diversità e come possiamo educarlo?

    Le neuroscienze si impegnano nel continuo studio per fare luce sui meccanismi sottostanti il nostro comportamento conscio e inconscio. Così la comprensione di come funzioniamo può aiutarci a mettere in atto azioni e comportamenti davvero coerenti ai nostri valori, abilitanti un maggiore benessere e in linea con la sostenibilità dei sistemi in cui siamo inseriti.

    Come è cambiata la D&I nel tempo?

    IL PASSATO: UN’EPOCA DI MANCATA CONSAPEVOLEZZA

    Cosa intendiamo oggi quando pensiamo alla diversità? E cosa se ascoltiamo la parola inclusione?

    Oggi le sentiamo pronunciare insieme infinite volte e le associamo all’esigenza preziosa di eguaglianza, rispetto, tutela e parità.

    Tuttavia, nessuno di noi dimentica la fatica con la quale il valore della diversità sia stato reso noto e la difficoltà con la quale, anche oggi, venga protetto. L’ integrazione tra diversità e inclusione non è, e non è mai stata, una cosa semplice.

    Le neuroscienze ci insegnano che il nostro cervello tende naturalmente a cercare l’omogeneità e a essere sospettoso verso ciò che percepiamo diverso.

    Siamo quindi fisiologicamente predisposti a creare un gruppo di appartenenza, fatto di chi ci assomiglia di più, e a rafforzarne il valore per distinzione da un out-group, di cui estremizziamo i tratti più lontani dai nostri.

    Questo accade perché ci siamo evoluti da una specie animale, che era predata e soggetta a minacce di ogni tipo. Doveva tutelare la sua sopravvivenza con azioni e reazioni immediate di attacco, fuga o congelamento.

    Di conseguenza, la nostra mente ha sviluppato e rinforzato nel tempo scorciatoie veloci di pensiero, istintive, per proteggersi, difendersi, decidere rapidamente a chi dare la nostra fiducia.

    Esiste una parte del nostro cervello più antica, rettiliana, che ancora prima del nostro ragionamento, si attiva automaticamente e risponde per noi.

    Questo meccanismo fine, ci è stato utile per milioni di anni, per semplificare la complessità, ed essere presenti oggi. Lo portiamo tuttora con noi come un filtro sugli occhi; liberarsene non è facile. È un retaggio evoluzionistico, risalente a quando ancora eravamo animali.

    Per un tempo lunghissimo, ci siamo immaginati e descritti come individui razionali per eccellenza, pensatori strategici e analitici, quando il nostro intuito ha sempre comandato per noi, e ci ha portato spesso a escluderci a vicenda, a non vederci, a giudicarci per semplificare, a trarre le nostre conclusioni un po’ troppo in fretta, alimentando pregiudizi e stereotipie, guidati dalle distinzioni di genere, etnia, religione, lingua, tratti somatici, possibilità fisiche e cognitive.

    Siamo stati profondamente ciechi all’inclusione e talvolta l’abbiamo accolta solo applicando regole superficiali, senza riconoscere i filtri che ognuno di noi ha sugli occhi.

    Ad esempio, molte aziende hanno praticato per anni una forte discriminazione di genere nelle assunzioni e nelle retribuzioni. Le posizioni di leadership sono state riservate in gran parte agli uomini, e le politiche aziendali mancavano di consapevolezza sulla necessità di un ambiente di lavoro inclusivo. Anche quando poi sono state applicate regole a sostengo di una maggiore equità, il loro impatto non è stato significativo e il cambiamento culturale è risultato poco incisivo.

    OGGI: UNO SGUARDO SUL NOSTRO FUNZIONAMENTO, UN PASSO VERSO L’INCLUSIONE

    Nel corso del tempo, tuttavia, è emerso un cambiamento fondamentale nel modo in cui abbiamo iniziato a guardare alla diversità e all’inclusione nelle aziende.

    Innanzitutto, ci siamo resi conto che non siamo affatto guidati dal lume di una ragione sempre attiva. La ragione è, anzi, ciò che più di recente si è sviluppato, ma ciò che ci ha permesso di sopravvivere nella storia è da sempre la capacità istintiva di sentire e la velocità di scorciatoie di pensiero che ci portano a semplificare per ottenere risposte rapide ma imperfette.

    Cosa succede però quando queste scorciatoie ci portano a evidenziare e stereotipare le differenze?

    Le nuove scoperte delle neuroscienze evidenziano che il nostro cervello risponde all’esclusione sociale con una risposta reattiva di dolore. I risultati di tecniche di neuro-imaging rendono chiaro che chi si sente escluso vive l’esclusione con sensazioni equivalenti a quelle del dolore fisico ed emotivo. Il cervello attiva gli stessi circuiti.

    D’altro canto, sentirsi accettati e inclusi attiva la produzione di ormoni come l’ossitocina e la dopamina, che favoriscono la motivazione, la creatività e il perseguimento di un risultato positivo che si mantiene nel tempo.

    L’inclusione crea un ambiente sociale in cui le persone si sentono valorizzate e rispettate, aumentando così la coesione di gruppo e lo scambio di idee.

    Oggi, insomma è evidente l’importanza che riveste l’inclusione, non solo a chi ha sensibilità e buon senso, ma anche a chi ha a cuore gli obiettivi di produttività di un’azienda.

    Allo stesso modo ci è chiara l’importanza di uno sviluppo di consapevolezza per poterlo fare. Non bastano regolamenti ben progettati ma è necessario un cambio di mindset.

    IL FUTURO: LA NEUROPLASTICITÀ E L’INCLUSIONE INTENZIONALE

    Oggi si parla di inclusione della diversità in molteplici ambiti della società, tra cui il lavoro, l’istruzione, la cultura e la vita quotidiana.

    Immaginiamo come ambienti inclusivi spazi in cui ogni individuo è rispettato, valorizzato e ha accesso alle stesse opportunità degli altri, indipendentemente dalle differenze personali. Diversità è un valore che consente l’evoluzione, grazie all’unione e all’integrazione di prospettive, backgroud e qualità diverse tra le persone.

    Nel futuro immaginiamo che la valorizzazione della diversità prescinderà dalle più comuni categorizzazioni legate al genere, all’età, all’etnia, alla provenienza geografica, ma si ricercherà un approccio incentrato sui talenti individuali.

    In questa prospettiva avanzata, la società valorizzerà maggiormente ciò che ogni individuo porterà al tavolo in termini di abilità, competenze e prospettive uniche e disegnerà percorsi di sviluppo differenziati per fare emergere le qualità che ogni persona può esprimere.

    Non esisteranno più quindi i talenti per come li intendiamo oggi, ma potenziali multipli da coltivare in modo che ogni persona sia messa nelle condizioni di donare il proprio contributo più alto.

    Gli studi di neuroscienze ci sostengono nel comprendere come possiamo adottare approcci più consapevoli per abbracciare la diversità.

    Il futuro dell’inclusione aziendale è legato alla consapevolezza e all’azione intenzionale.

    Le neuroscienze ci dimostrano che il nostro cervello è plastico, il che significa che può cambiare e adattarsi nel tempo. 

    Per promuovere l’inclusione, scegliamo di lavorare sulla neuroplasticità del nostro cervello. Possiamo farlo avendo a mente 3 obiettivi fondamentali:

    • CONOSCERE SÉ STESSI: essere coscienti delle nostre inclinazioni e dei nostri automatismi ci permette di agire in modo più consapevole.
    • CONOSCERE GLI ALTRI: imparare a conoscere gli altri in modo autentico, praticando empatia e flessibilità mentale, questo ci consente di costruire relazioni basate sulla fiducia e sulla comprensione reciproca.
    • COSTRUIRE PONTI: scegliamo di agire come modelli di inclusione, progettando comportamenti che creino collegamenti tra le differenze e promuovendo la condivisione delle best practice.

    La consapevolezza e l’azione intenzionale saranno il cuore di questo cambiamento e le fondamenta su cui costruire una cultura inclusiva e sostenibile.

    Noi di Hermes ci impegniamo a sostenere questo cambiamento, lavorando al fianco di persone e organizzazioni per implementare modelli di business sostenibili e promuovere una cultura dell’open mind.

    La responsabilità delle aziende, come la nostra, è creare un sistema economico circolare, orientato al benessere delle persone e della società.

    Come possiamo, individualmente e collettivamente, contribuire a costruire ponti tra le differenze, superando gli automatismi del passato? La sfida è aperta, e la risposta risiede nelle scelte che facciamo adesso.

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  • Tazze caffè che conversano, blu, nuvolette

    Sfida Hybrid: Strategie per una Comunicazione Interna Efficace e una Cultura Organizzativa Resiliente

    INTRODUZIONE              

    In un mondo aziendale sospeso e interconnesso, veloce e intangibile, la comunicazione interna sta emergendo come uno dei pilastri fondamentali per sostenere e guidare al successo duraturo le organizzazioni odierne.

    Ma quale ruolo svolge esattamente?

    In che modo influisce sulla cultura organizzativa?

    Come sta evolvendo in risposta alle sfide poste dall’Hybrid Work?

    Nelle prossime righe, esploreremo questi interrogativi, mettendo in luce come la comunicazione, sia formale che informale, apra le porte alla resilienza e alla solidità delle culture aziendali.

    Comunicazione Formale e Informale: Riflettori sulla Cultura Organizzativa

    La comunicazione interna aziendale è oggetto di studio da molti anni ed esplora la complessa relazione tra i processi comunicativi, verbali e non verbali, e la vita organizzativa.

    Per questo, la comunicazione costituisce un indicatore cruciale dello stato di salute di un’organizzazione ed è un predittore affidabile della sua longevità.

    La fitta rete di scambi di cui l’organismo-azienda è estremamente ricco, per molti studiosi è proprio ciò che ne fa battere il cuore; è il tessuto della vita delle organizzazioni.

    La comunicazione interna contribuisce a definire l’identità stessa di un’azienda e ne riflette i connotati.

    Da un lato, il linguaggio formale, veicolato attraverso canali ufficiali come il sito, le e-mail e le riunioni programmate, rispecchia la visione e gli obiettivi dell’azienda, influenzando anche la percezione dei dipendenti e il loro senso di appartenenza.

    Dall’altro lato, la comunicazione informale contribuisce allo sviluppo naturale di relazioni calorose e profonde tra colleghi, creando una rete di prossimità tra le persone e offrendo una prospettiva più ampia ed empatica sulla cultura organizzativa.

    La spontaneità delle interazioni sociali non programmate, ma protagoniste dei pranzi e delle brevi pause caffè, costruisce legami di fiducia e promuove un senso di comunità.

    All’interno dell’ampia rete organizzativa, le connessioni si espandono e si rafforzano quando le persone condividono informazioni intime di sé stesse e hanno occasione di rivelare aspetti non necessariamente legati alla sfera lavorativa.

    Avere uno spazio per raccontarsi qualcosa genera fiducia tra le persone, voglia di andare oltre, di conoscersi e di capirsi di più, di aiutarsi nei momenti di difficoltà.

    In altre parole, si sviluppa empatia, un motore che accende e sostiene il proseguire delle relazioni. L’empatia crea una sintonia tra colleghi che permette loro di muoversi con reattività: imparano, infatti, a rispondere e anticipare bisogni, desideri, preoccupazioni e obiettivi dell’altro, favorendo così il benessere aziendale complessivo. Sono più responsabili delle loro azioni perché pesano l’impatto di ciò che fanno sul sistema e il pregiudizio nei confronti degli altri si attenua.

    Per riprendere un famoso modo di dire: “ non possiamo giudicare un libro dalla copertina”, (anche se lo facciamo molto spesso) pertanto, per capire, dobbiamo leggere almeno qualche pagina.

     

    L’Hybrid Work e l’Impatto sulla Spontaneità della Comunicazione

    L’adozione dell’Hybrid Work ha portato a un affascinante cambiamento nella comunicazione all’interno delle aziende. Se da un lato la distanza fisica ha limitato gli incontri casuali e le chiacchierate spontanee tra colleghi, dall’altro ha aperto nuove porte a una comunicazione digitale più attenta, più ricca e coinvolgente. Tuttavia, è importante guardare la scena con una vista ampia.

    Oggi, il confronto richiede maggiore intenzionalità e una profonda attenzione al contenuto. Molti processi aziendali prima basati sulla spontaneità degli scambi, ora richiedono pianificazione e attenzione al dettaglio.

    La comunità non si costruisce automaticamente ma va costruita, e le opportunità non si trovano ma vanno create. Ci siamo fatti nuove domande, in molti casi, abbiamo sperimentato per mesi interi la totale assenza di un setting lavorativo. Abbiamo sentito poi il bisogno di definire messaggi efficaci, caldi, chiari, fondati su uno scopo più esplicito.

    L’Hybrid Work ha innegabilmente sfidato le tradizionali dinamiche di comunicazione, spingendo le persone ad adattarsi e a trovare nuovi modi per alimentare i legami. Le interazioni virtuali, agevolate dalle moderne tecnologie, hanno offerto un’alternativa all’incontro face to face, dimostrando che la distanza fisica non deve essere un ostacolo alla connessione umana, anzi, ci permette di guardare oltre i confini geografici per sciogliere ogni limite alla collaborazione e al confronto.

    Confronto rispetto a cosa?

    Il confronto, oggi, molto di più richiede intenzionalità e lo sviluppo di un pensiero antecedente.

    Molti processi aziendali prima si sviluppavano grazie alla spontaneità di scambi veicolati da un contenitore fatto di quattro mura, oggi la trasmissione di know how, l’inserimento e l’onboarding di persone, la formazione all’interno di una realtà aziendale vanno pensati con molta più cura e con un’attenzione profonda al contenuto.

     La comunità non si costruisce, ma va costruita. Le occasioni non si trovano ma vanno create.

    Nel luogo di lavoro la ripetitività, le pratiche rituali, il sapere oggettivato, favoriscono la permanenza della rappresentazione collettiva di un gruppo.

    Le informazioni sono estremamente simboliche. Senza rendercene conto le utilizziamo come strumento di monitoraggio, di incentivazione, di strategia, ma anche per scoprire significati, per chiarire i processi decisionali.

    Il nucleo vivente dell’azienda riesce ad affrontare e superare le complessità, le difficoltà e gli ostacoli, a coltivare le diversità e a connetterle tra loro attraverso lo scambio comunicativo che avviene tra le persone.

    Le organizzazioni hanno il potere di coltivare anche oggi una comunicazione interna vibrante, possono sostenerla agevolando la creazione di momenti di condivisione sia in presenza che in modo virtuale, che superino le questioni puramente operative per toccare un livello più profondo e valoriale.

    Queste iniziative permettono ai dipendenti di esprimere idee, opinioni e di sentirsi parte di qualcosa di più grande.

    I leader, in particolare, giocano un ruolo chiave nell’ispirare una comunicazione inclusiva e coinvolgente, trasmettendo i valori dell’azienda con passione, incoraggiando una bidirezionalità comunicativa, dove sono naturali i feedback, i confronti, la condivisione delle idee.

     

    Conclusioni

    La comunicazione interna riveste un ruolo sempre più centrale nell’ambito aziendale, soprattutto in un’epoca caratterizzata dall’Hybrid Work. La combinazione di comunicazione formale e informale riflette la cultura organizzativa e contribuisce a costruire relazioni solide tra i dipendenti. Affrontare le sfide del cambiamento nell’ambiente lavorativo richiede un impegno continuo e una flessibilità costante per mantenere viva la trama comunicativa; pertanto, una comunicazione aperta e chiara è cruciale per alimentare il senso di appartenenza e coinvolgimento di tutti coloro che contribuiscono insieme a muovere l’organizzazione verso il futuro. In un mondo in costante evoluzione, la comunicazione interna funge da collante, consente alle aziende di prosperare anche nelle situazioni più complesse e di guardare al domani.

    Oggi ancora di più abbiamo la responsabilità di farlo succedere.

    Oggi scegliamo di essere quel filo rosso.

     

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  • persone con finestra

    Da contenitore a contenuto: benessere e socialità sul luogo di lavoro

    Introduzione

    Vi siete mai chiesti come prospera un’azienda? Avete mai elencato gli elementi che più vi occorrono per essere felici? Vi siete domandati quali di essi ritrovate nel vostro lavoro e come è cambiata la composizione di questi elementi al variare dell’equilibrio di vita e di lavoro post-pandemia? In questo articolo parleremo di benessere, di felicità, di prosperità, ma anche di cambiamento; di luogo e di senso.

    Che cos’è il Lavoro per Noi

    Il lavoro ha sempre costituito un’esperienza preziosa nella vita della maggior parte degli esseri umani; tanto che al di là di un dovere e di un diritto, per molti è un bisogno poiché permette di arrivare a un senso di interezza, di raggiungere una maggiore sicurezza, di comunicare agli altri chi siamo.

    Esso si colora di molteplici significati, scandisce il nostro tempo e le nostre attività, è un sistema sociale nel quale le persone interagiscono quotidianamente, che ha norme e rituali condivisi. Il lavoro ci permette di definire il nostro status sociale e contribuisce a formare l’identità personale.

    È un punto di riferimento per riconoscersi, per arricchire o confermare il proprio modo di concepire sé stessi. Si tratta di uno spazio di espressione ampio e potente, attraverso il quale crescono la nostra competenza, la nostra autonomia e il nostro senso di scopo.

    Quando ci sentiamo soddisfatti e motivati nel lavoro che svogliamo e percepiamo di essere in sintonia con obiettivi, mission e vision dell’azienda, scopriamo che quest’agenzia di socializzazione per noi assolve alcuni dei bisogni fondamentali per il nostro benessere psicologico

    La famosa psicologa Carol Ryff identifica 6 bisogni chiave per la nostra felicità, ed è possibile che ogni persona, all’interno della sua organizzazione, riesca ad assolverli tutti, in proporzione più o meno alta:

    • Accettarsi ed esprimersi, provando soddisfazione verso di sé e verso la propria vita avendo consapevolezza delle proprie qualità.
    • Sentirsi Autonomi, avendo la capacità di prendere decisioni, di regolare il proprio comportamento in modo coerente con i propri valori e obiettivi, sentendosi in controllo della propria vita.
    • Vedersi crescere avendo l’opportunità di una ricerca continua di sviluppo, nell’accoglienza di nuove sfide ed esperienze.
    • Sentirsi in agio nel proprio ambiente, un luogo che include aspetti fisici, sociali e culturali, su cui esercitiamo un’influenza e a cui ci sentiamo di appartenere, perché al suo interno condividiamo esperienze e tracciamo relazioni con altre persone.
    • Sentirsi parte di un gruppo, coltivando relazioni di prossimità. La qualità delle relazioni interpersonali e il sostegno sociale che si riceve dagli altri ci fanno sentire bene. Le interazioni quotidiane nel contesto organizzativo favoriscono il cambiamento comportamentale, promuovono l’empowerment personale e permettono di negoziare le proprie differenze. In questo contesto, l’empatia gioca un ruolo fondamentale, riduce i pregiudizi, ci rende reattivi ai bisogni degli altri, catalizza la costruzione di relazioni di supporto e fiducia.
    • Riconoscere ed esprimere il proprio scopo; sentire un senso profondo, un significato nel proprio agire e intuire la direzione migliore per la propria vita, tracciando obiettivi con più chiarezza e delineando la propria visione con passione e lungimiranza.

    L’Incidenza del Luogo di Lavoro

    Ma quanto incide la fisicità del luogo sull’espressione di questi elementi?

    Se li leggiamo con attenzione intuiamo subito come la distribuzione di questi fattori cambia velocemente nell’era dell’Hybrid Work: alcuni crescono a vista d’occhio, altri calano allo stesso ritmo.

    Per le persone la possibilità di esprimersi, di accettarsi, di scambiare, di collaborare è fortemente legata all’attaccamento verso il luogo in cui le azioni prendono vita.

    L’organizzazione esprime in ogni momento una propria cultura, ha un’identità e obiettivi istituzionali e spesso veicola tutto questo senza bisogno di parole scritte.

    È proprio come un “organismo vivente”, dove individuo e azienda non sono separati e separabili, anzi i funzionamenti dell’uno trovano parallelismi e interazioni complessi con quelli dell’intera azienda. Si influenzano continuamente, senza esserne consapevoli.

    Possiamo immaginare un’energia sottile e diffusa, che alimenta il tessuto delle relazioni, rendendo le piccole parti dell’azienda un’unica squadra

    Tutto questo accade perché esiste un contenitore, fatto di pareti, di porte e finestre dove si scambia continuamente, dove ci rispecchiamo “letteralmente”. Quando eravamo bambini era la scuola, poi diventa il lavoro.

    Ci imitiamo, ci sintonizziamo, ci capiamo, ricevendo continuamente qualcosa dagli altri. Viviamo un senso di esperienza condivisa.

    Nelle stanze nasce una risonanza, che ci consente di eseguire i compiti, risolvere i problemi, collaborare, in modo coordinato e connesso.

    Quando le Pareti Diventano Finestre Liquide

    Cosa succede quando il luogo fisico si dematerializza?

    È ovvio che il senso di appartenenza, un tempo associato principalmente a un luogo fisico e a un gruppo di persone sempre presenti, sta vivendo una trasformazione significativa. È altrettanto evidente che il nostro benessere psicologico deve essere coltivato con una nuova attenzione.

    Stiamo passando da forma a sostanza, da contenitore a contenuto, da spontaneità a intenzionalità.

    Perdiamo il controllo sull’ambiente, acquistiamo maggiore autonomia, abbiamo maggiore possibilità di esprimerci individualmente e meno occasioni per mostrarlo agli altri e avere un riscontro del nostro operato. Possiamo e vogliamo crescere, ma la velocità aumenta e i nostri progressi sono sotto ai nostri occhi e poco agli occhi degli altri.

    Non possiamo fare le pause caffè ma possiamo scegliere di incontrarci e collaborare.

    Possiamo scegliere di sperimentare, possiamo decidere di condividere

    Molti processi, di socializzazione, di identificazione, di crescita, prima erano spontanei, oggi non lo sono più, richiedono un approccio intenzionale per essere costruiti insieme.

    Se non è più possibile identificare una cultura che nasce spontaneamente in un contesto fisico, oggi abbiamo l’opportunità di crearla insieme alle persone che vivono l’azienda, radicando nella loro consapevolezza e nel loro agire il senso delle attività che svolgono.

    È fondamentale avere una cultura condivisa e un significato comune per sentirsi squadra.

    Oggi è l’unica cosa che può tenerci davvero uniti.

    Inoltre, le neuroscienze ci dimostrano che il senso di appartenenza ad un’azienda è strettamente legato alla capacità di condividere una visione comune e un significato condiviso. Quando le persone si sentono parte di un obiettivo più ampio, la loro esperienza diventa più piacevole e coinvolgente. La fiducia aumenta, e si crea un legame più profondo tra i membri dell’organizzazione.

     Oggi l’intenzionalità di costruire insieme, di valorizzare le relazioni e di creare un ambiente in cui il significato sia condiviso diventa essenziale per il successo delle organizzazioni nel 2023.

     Conclusione

    In conclusione, nell’era del lavoro ibrido, l’intenzionalità di costruire un ambiente di lavoro basato su significati condivisi diventa essenziale per la soddisfazione dei dipendenti e il successo delle organizzazioni. La cultura dell’azienda e la comunicazione interna giocano un ruolo cruciale nel plasmare il benessere, il senso di appartenenza e il coinvolgimento dei lavoratori.

    Processi di visioning, di identificazione del Purpose, di co-costruzione della mission, di condivisione dei valori hanno un’importanza davvero alta nel determinare l’unione delle persone, la loro motivazione e la performance dell’azienda.

    Creando un ambiente in cui le persone si sentono parte di un senso più ampio, l’organizzazione può prosperare e affrontare con successo le sfide del futuro.

    Oggi è fondamentale partire dai perché, dai valori, da ciò che per le persone è più importante.

    Se non esiste più un contenitore, delle relazioni, degli scambi, delle persone, è il contenuto che fa la differenza. È Il perché.

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  • immagine che raffigura connessioni, energia, colori

    La Leadership Cosciente: Guidare il Cambiamento verso un Futuro Sostenibile

    Nel contesto attuale, caratterizzato da un sistema adattivo complesso, flessibile e multiforme, la leadership riveste un ruolo fondamentale nel raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità.

    Gli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) che vogliamo realizzare richiedono connessione e co-creazione; si traducono in azioni coordinate, sociali, economiche e ambientali, a livello regionale, nazionale, internazionale. Sono realizzabili se si creano connessioni, reti tra società, enti governativi, istituzioni educative. Chi può compiere queste difficili imprese? Chi ha il ruolo di “mettere insieme i puntini?”

     

    Schema leadership cosciente, rappresentazione grafica

    Siamo immersi nella complessità. Come facciamo ad impattare su questo sistema, a trasformarlo, a raggiungere gli SDGs?

    Non bastano regolamenti chiari e politiche ben progettate. Spesso ciò che fa la differenza è l’ispirazione, la lungimiranza e la capacità di comunicare che solo un vero leader conosce, per guidare azioni coordinate e movimenti sociali in cui le persone sono coese e allineate.

    L’effetto del leader sui sistemi complessi è indiretto e imprescindibile; avviene attraverso la manifestazione di un’identità organizzativa e di uno scopo verso cui le persone tendono e confluiscono.

    I leader possono seminare e coltivare un perché collettivo, attivare cambiamenti sociali e adottare molteplici approcci.

    Per anni le aziende hanno cercato di tracciare l’identikit di chi guida il cambiamento. Hanno indagato spesso le competenze da sviluppare per essere leader di successo.

    Oggi ci stiamo chiedendo: come si rappresenta il mondo il leader ad alto impatto trasformativo? Come organizza nel suo cervello l’esperienza che vive?

    Gli studi ci dicono che il ruolo della leadership è centrale per volgere davvero le azioni collettive verso la sostenibilità e la longevità, ma che una caratteristica tra tutte fa la differenza e risiede nello sviluppo della coscienza.

     

    La Leadership della Trasformazione:

    Il leader della trasformazione ha un’autoconsapevolezza elevata e un senso di coscienza allargato che gli permettono di passare rapidamente da un punto di vista all’altro, di cogliere le connessioni tra le cose, di leggere i segnali sottili con un’ampia sensibilità e un fine ascolto, ma soprattutto, di organizzare le esperienze e i punti di osservazione per costruire senso e trovare significato.

     

    La Coscienza come Strumento di Auto-Riflessione:

    La nostra coscienza orienta il nostro focus attentivo e mette in luce il rapporto tra ciò di cui siamo consapevoli e ciò che rimane nascosto. È indicativa di cosa notiamo, cosa sentiamo o meno sotto la nostra responsabilità, come valutiamo l’impatto di ciò che facciamo.

    Quando è estesa e ampiamente sviluppata ci permette di avere un’identità dinamica e quest’ultima ci abilita ad uno sguardo più critico, profondo e olistico anche verso le nostre convinzioni, le nostre abitudini e i nostri modi di pensare. Ci aiuta anche a prendere le distanze da noi stessi, il tempo necessario per ricavare un punto di vista diverso che completa il quadro. Noi diventiamo oggetti nella nostra riflessione e ci guardiamo nel nostro divenire.

    Questa capacità di auto-riflessione è un tratto distintivo dei leader coscienti e consapevoli, la cui rappresentazione del mondo e di sé stessi è radicata nel sentire e nella recettività di ciò che accade intorno.

    Forse è questo l’ingrediente più prezioso per avere davvero un impatto concreto sull’evoluzione sostenibile della nostra società.

    Forse è questo l’ingrediente che ci serve per coltivare una longeva eredità.

    Qualcuno concretizza, il leader cosciente sente.

    Quando siamo davanti ad una scena difficile da comprendere possiamo agire in due modi:
    Possiamo semplificare, quindi concretizzare e dettagliare, eliminando, al contempo, ciò che è fuori dalla nostra rappresentazione schematica; oppure possiamo rimanere comunque recettivi, malleabili e pronti a includere.

    Il leader con un alto livello di coscienza è spirituale e sensoriale allo stesso tempo, poiché è profondamente ancorato al sentire e a ciò che succede intorno, mentre coglie i sottili punti di contatto tra le cose per trovare significati.

    L’espansione del sentire ci aiuta a riconoscerli.

    Un esempio?

    Per alcuni, il benessere umano equivale al proprio, per altri corrisponde al bene per la famiglia e per i propri cari. Per altri ancora è il Bene della comunità, del paese, del mondo intero.

    Tutte le persone desiderano benessere e felicità, in questo sono uguali, ma in scala sono diverse.

    Il leader altamente cosciente è recettivo, malleabile, inclusivo ed espande il raggio di questa scala. “guarda senza una ragione apparente” e considera il benessere del mondo una sua priorità.

    Wikipedia.it

    Huile sur toile (1925) de Vassily Kandinsky. Musée National d’Art Moderne, Paris, France. Donation Nina Kandinsky 1976. AM 1976-856

     

    La Fusione tra Spiritualità e Leadership:

    La spiritualità, intesa come capacità di vedere oltre, diventa parte integrante della leadership consapevole.

    In questa cornice, la tendenza umana universale a “volere di più” non è rivolta a un regno materiale, ma a qualcosa di intangibile che diventa una forza trainante delle azioni e risiede dello scopo profondo che sentiamo di voler perseguire.

    La Guida verso gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile:

    Il contesto attuale richiede una nuova prospettiva sulla leadership, che vada oltre l’acquisizione di abilità e conoscenze tecniche. È necessario concentrarsi sulla coltivazione dell’autocoscienza, dell’empatia e dello scopo nei leader, affinché possano comprendere i propri pensieri e le proprie credenze, i propri valori e il proprio scopo, allargando la loro plasticità, e la loro prospettiva. Si tratta di un impegno continuo e profondo. È un viaggio che richiede percezione, apprendimento e adattabilità.

    Solo attraverso una leadership consapevole e orientata al Bene Comune si può sperare di trasformare le sfide globali in opportunità e guidare il mondo verso un futuro sostenibile.

    Ecco perché oggi avere uno spazio di sviluppo personale è estremamente prezioso per guardare con lungimiranza e apertura verso gli SDGs.

    Le organizzazioni, in quest’ottica, diventano centri di trasformazione, in cui i manager hanno lo spazio di guardare dentro sé stessi e di lavorare insieme per diventare agenti del cambiamento tanto desiderato dal mondo. Le gerarchie tradizionali si sciolgono, aprendo spazio all’innovazione, alla collaborazione e all’autonomia. Le aziende assumono il ruolo guida nella sostenibilità, dove il profitto non è più l’unico motore, ma diventa un veicolo per il benessere di tutte le parti coinvolte e dell’ambiente in cui operano.

     

    Una curiosità?

    Per esercitare questo livello di consapevolezza le ricerche ci raccontano che non c’è niente di meglio di una storia mitica, dell’ispirazione artistica, di una favola ad alto impatto. Questi tipi di storie alimentano lo scopo dell’agire, tramandano messaggi e significati e sono carichi di spiritualità.

     

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  • Immagine illustrativa di uccello in volo

    HYBRID WORK: GERMOGLI DI FUTURO

    NEGLI ULTIMI 3 ANNI IL 77% DELLE AZIENDE HA PROFONDAMENTE MODIFICATO IL PROPRIO MODELLO ORGANIZZATIVO: POST-PANDEMIA, DIGITAL TRASFORMATION E NUOVE SOFT SKILLS ALLA GUIDA DEL CAMBIAMENTO

    È quanto emerge da una Ricerca esclusiva che abbiamo condotto grazie alla collaborazione con l’Istituto di Ricerca Demia sul Top Management di 100 realtà leader italiane e multinazionali per approfondire il panorama del lavoro ibrido in Italia e delinearne il futuro

    Milano, 31 maggio 2023 – Una ricerca appena conclusa su 100 professionisti delle Risorse Umane e amministratori delegati in Italia svela un quadro dettagliato delle trasformazioni aziendali avvenute negli ultimi tre anni, durante e dopo la pandemia. I risultati evidenziano come l’adozione dell’Hybrid Work “metta d’accordo quasi tutti”.

    Il 77% delle aziende intervistate ha cambiato significativamente l’organizzazione e i processi lavorativi, adottando il modello di lavoro Ibrido.

    L’Hybrid Work non è solo alternanza tra lavoro in presenza e lavoro da remoto ma è un approccio flessibile tra le diverse funzioni aziendali che, portando avanti progetti trasversali, vanno alla ricerca di un nuovo stile di lavoro in cocostruzione e co-creazione.

    Maggiore attenzione al senso delle cose, allo scopo del lavoro, alla responsabilità, alla flessibilità e minor rigidità sugli orari lavorativi, sono tra i principali risultati della ricerca.

    Il 40% di CEO e HR segnala l’adozione di nuovi stili di leadership.

    Statistiche con grafica

    Il 79% delle aziende ha ulteriormente sviluppato e integrato sistemi di monitoraggio della percezione di dipendenti e collaboratori, rilevando la loro soddisfazione attraverso analisi di clima e progetti ad hoc.

    Tra coloro che hanno promosso tutti questi cambiamenti, al primo posto ci sono i responsabili delle Risorse Umane:
    il 63% di loro ha progettato, promosso e implementato queste trasformazioni in prima persona, anche con il sostegno del Top Management, configurando una crescente importanza di questa figura professionale nella guida del domani.

    Il contesto in cui si sono trovate ad operare le aziende è mutato talmente tanto che le spinte alla trasformazione sono arrivate da ogni direzione: la pandemia ha aperto molti occhi sulle possibilità del digitale, la maggioranza del top management ha acquisito la consapevolezza che la persona ha un valore, ben oltre i processi e le procedure, mentre le persone hanno rafforzato la coscienza delle possibilità offerte dai modelli di lavoro più flessibili.

    Ci sono tuttavia poli contrapposti sulla bilancia dell’Hybrid Working e la bilancia continua a oscillare, lasciando intravedere scenari più profondi.

    Possiamo riassumerli in 4 grandi temi chiave:

    Welfare e generazioni:
    I giovani vivono il lavoro ibrido come un diritto e non una concessione e se il lavoro non porta valore aggiunto si danno il permesso di dire no. La ricerca suggerisce che mantenere l’autenticità, poter esprimere sé stessi interamente e trovare coerenza tra ciò che si è e ciò che si realizza è cruciale per gli under 35.

    Cultura e comunità:
    Il senso di appartenenza sta diminuendo e sta cambiando. Il dialogo e la relazione hanno quindi un ruolo sempre più importante al fine di creare continuità, connessione e coerenza.  Le persone si stanno legando sempre meno alla fisicità di un luogo o al gruppo di colleghi; quindi, è sempre più importante co-costruire Purpose, Mission, valori e azioni come punto di coesione.

    Il futuro dei talenti:
    Neurobiologicamente parlare di talenti non regge: l’inclusione sviluppa l’idea che ciascuno possa portare la propria distintività: scoprire e valorizzare le qualità di ciascuno all’interno dell’organizzazione affinché possa dare un contributo ai risultati. La vera capacità sarà quella di connettersi a questo sistema.

    Hybrid Work e D&I:
    Lo smart working è apprezzato e considerato inclusivo, perché dà spazio ai bisogni del singolo, garantisce comodità nella gestione della vita personale e nella sostenibilità familiare, ma può anche escludere, raffreddando le relazioni informali e portando a isolamento e alienazione se l’azienda non si organizza adeguatamente.
    La psicologia, il mentoring e il coaching stanno stabilmente entrando nel mondo del lavoro.

    Molti sentono importante rifondare la cultura aziendale ricercando maggiore connessione tra le persone.

    Per questo, la leadership del futuro avrà la responsabilità di abbracciare e trasmettere un approccio sistemico, spingere sull’innovazione e aprire, ancor di più, al cambiamento.

    Diego Martone, CEO dell’Istituto di Ricerca Demia, rivela che l’85% delle aziende identifica le seguenti come le principali sfide per la leadership:
    “L’aumento della complessità aziendale, della fluidità e della circolarità; l’inclusione e l’integrazione tra le generazioni; lo sviluppo del benessere delle persone, la valorizzazione del talento di ciascuno e lo sviluppo di sinergie con altre realtà organizzative in un’ottica di knowledge sharing.”

    Daniela Oliboni, amministratrice delegata di Hermes Consulting aggiunge:                                                                                                                                                                                                            “Nonostante molte evidenze di leadership ancora direttive, i germogli di futuro rivelano la possibilità di un nuovo umanismo, dove le persone sono misura e centro di azione per un futuro longevo e sostenibile.”

    Chi ha contribuito a tracciare questi dati si è anche riunito il 31 maggio 2023 a Milano in una logica di scambio, di collaborazione e di Bene Comune, per immaginare il domani da costruire, a testimonianza di un’apertura, di un interesse condiviso e di una trasversalità nuova volta alla co-creazione. La figura degli HR è al centro della proposizione per integrare persone e business a garanzia di longevità.

    A organizzare l’attività noi di Hermes Consulting, che da quasi 30 anni operiamo nell’ambito della Trasformazione Culturale affiancando Comitati di Direzione e Funzioni HR in processi di cambiamento e sviluppo attraverso attività di consulenza, facilitazione, coaching e formazione.

    Immagine descrittiva di Hermes come società benefit

    Presente insieme a noi anche Demia, Istituto di Ricerca specializzato in indagini generazionali, che si occupa di raccolta e analisi di dati allo scopo di fare emergere trend e insight di valore.

    Ospite prezioso dell’evento Skopia, una nostra realtà partner specializzata in studi, osservatori e consulenza strategica sugli scenari futuri, per la gestione anticipante del rischio e delle opportunità.

     

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    • Uomo vitruviano moderno al centro di un quartiere finanziario

      Il cambiamento aziendale ad alta intensità umana

      Essere attori di un cambiamento in azienda non può prescindere dal comprendere le dimensioni più profonde che lo riguardano. Di fronte a un cambiamento non si può improvvisare. Piuttosto, è necessario parlare delle persone che lo realizzano attivamente, dei loro bisogni, della loro anima, della loro esperienza soggettiva, da inquadrare all’interno dell’ecosistema che li accoglie.

      Possiamo leggere il cambiamento come un prisma che si origina da più dimensioni integrate tra di loro.

      Hermes: il messaggero del cambiamento aziendale

      Il cambiamento è per l’umanità una storia millenaria. È da sempre una nostra attitudine, che ci rende umani e vivi in quanto tali. Ha sempre avuto un’alta risonanza in noi.

      Fin dall’antichità, la filosofia di Eraclito ci ha insegnato che “tutto si muove e nulla sta fermo“. Ogni cosa, anche la più statica, se guardata da più lontano, può essere letta come in divenire continuo, che sia veloce o che sia lento.

      Hermes, per gli antichi greci era facilitatore di passaggio, scambio e transito. S’incarnava nel concetto di passaggio da un luogo all’altro, da una condizione all’altra. La sua natura aveva a che fare col mutamento delle vicissitudini umane, con lo scambio di informazioni e di beni commerciali.  Era il dio che rappresentava la comunicazione, la velocità, l’agilità e la capacità di adattamento.

      Tutte qualità, queste, che possono essere applicate anche nel contesto aziendale di oggi. Hermes può simboleggiare il cambiamento all’interno dei sistemi organizzativi, poiché incarna la capacità di gestire una trasformazione in modo rapido ed efficace, di comunicare con chiarezza e trasparenza con le persone coinvolte nel processo e di adattarsi alle nuove esigenze e sfide del mercato.

      Come Hermes portava agli uomini le parole e volontà degli dèi, così il cambiamento in azienda richiede un messaggero che sia in grado di comunicare efficacemente i nuovi obiettivi, le nuove sfide e strategie per il futuro a tutti gli attori coinvolti, aiutando l’azienda a navigare con successo e portando con sé un messaggio di fiducia e di speranza.

      Il cambiamento in azienda: un viaggio di rinascita da affrontare a tappe

      Tuttavia, essere al corrente della dimensione mitologica del cambiamento non è abbastanza per poter essere agenti attivi del cambiamento all’interno di un’organizzazione. Oggi, in un contesto costellato da incertezza e complessità, ci chiediamo come poter essere realmente fautori di un cambiamento. Per farlo serve una metodologia. Come scrisse diversi anni fa Kurt Lewin, uno dei padri della psicologia sociale e del lavoro, le organizzazioni, proprio come organismi biologici, si adattano all’ambiente, raggiungono un equilibrio, un omeostasi, così da opporsi naturalmente a qualsiasi perturbazione possa sconvolgerli.

      Il cambiamento, perciò, non può mai avvenire in maniera rapida, come quando si accende o si spegne una lampadina. Per renderlo parte integrante dell’organizzazione e solidificare un nuovo paradigma è importante percorrere un processo a tappe.

      Anzitutto, dobbiamo scongelarci dall’inverno di un paradigma precedente che sentiamo stretto e appartenente a un passato, ma che al contempo ci rappresenta e ci fa sentire sicuri. È necessario decidere di cambiare norme e strutture, generare una motivazione diffusa all’interno dell’azienda volta a spostare il proprio baricentro, a rinunciare a qualcosa di facile e abitudinario che riesce bene fare.

      Secondariamente, il percorso di cambiamento viene studiato, realizzato e infine intrapreso, con una strategia chiara e una guida che alimenti quotidianamente la fiducia delle persone così da fare in modo che il nuovo processo si consolidi e diventi un’abitudine, al pari della precedente.

      Come una farfalla che esce dal suo bozzolo e si trasforma da bruco a essere alato, l’azienda che affronta il cambiamento deve essere pronta ad abbandonare le vecchie abitudini e a trasformarsi in qualcosa di nuovo e migliore. La trasformazione di una farfalla richiede tempo, impegno e pazienza. In modo simile, il cambiamento in azienda richiede un processo graduale di adattamento, in cui l’organizzazione deve sperimentare nuove idee, nuove strategie e nuovi modi di fare le cose. In entrambi i casi, la trasformazione può essere dolorosa e difficile, ma alla fine porta a una nuova forma di vita, più bella e più forte di quella precedente.

       

       

      Il faro verso cui tendere è situato sempre nello scopo, in un Purpose condiviso dalle persone che popolano le organizzazioni. La magnitudo, la dimensione economica del cambiamento, i ruoli degli attori, le fasi, gli ostacoli e le conseguenze di una trasformazione sono da presidiare costantemente. Kurt Lewin, in tal senso, ci indica come la gestione del cambiamento debba avvenire attraverso un viaggio, un processo a fasi che possa sfociare in nuove prospettive per le Risorse Umane. Queste, infatti, possono facilitare tra le persone un aumento di consapevolezza relativa al cambiamento e stimolare una comunicazione bidirezionale tra la popolazione in azienda e la direzione, cercando di rafforzarne la fiducia reciproca.

      L’uomo al centro del cambiamento in azienda

      La corretta gestione del cambiamento in azienda necessita che le fasi di questo viaggio siano ben pianificate, che gli attori comunichino in modo trasparente tra loro e soprattutto che le azioni siano people-centred, ovvero che il focus primario siano le persone e il modo in cui il cambiamento può impattare su di loro.

      Da un punto di vista biologico, l’azienda può essere vista come un organismo vivente, un sistema cellulare fatto di interconnessioni.

      Come una molecola che subisce una reazione chimica, il cambiamento può provocare una serie di effetti sulle persone. È dunque primario comprendere motivazioni, ragioni e storie personali di quanti vengono coinvolti all’interno dei processi di cambiamento. Mettersi nei panni dell’altro è vitale per permettere di creare un senso di co-empatia ed evolvere all’interno di una dimensione di ascolto proattivo, così da comprendere quanto più possibile il modo in cui gli altri percepiscono il mondo.

      persone che parlano tra loro in aziendaNessuno cambia da solo. Il valore del cambiamento si esprime in tutta la sua forza nella capacità di connettersi con l’altro, percependone emozioni e pensieri, comprendendone i sentimenti ma al contempo mantenendo distinti i nostri.

      In questo viaggio, le persone che popolano l’azienda co-costruiscono un percorso trasformativo e si adoperano affinché tutti insieme raggiungano il cambiamento che s’intende realizzare. Ognuno di noi è parte integrante di questo processo.

      Siamo davanti a una trasformazione culturale, a un nuovo umanesimo che pone le persone al centro del cambiamento.

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    • Futuro, longevità e ambiguità: le parole di questo 2023

      Dove ci muoviamo e qual è il presente in cui immaginiamo il futuro?

      20 anni fa è stato coniato l’acronimo VUCA per descrivere il mondo contemporaneo come VOLATILE, INCERTO, COMPLESSO, AMBIGUO.

      Si tratta di un mondo che richiede un pensiero diverso e una mentalità differente. Non più un mondo dove è importante trovare le risposte, ma un mondo in cui piuttosto è importante farsi le giuste domande.

      Siamo abituati a ragionare di “problem solving” riferendoci a fenomeni misurabili e stimabili ma oggi oscilliamo tra due dimensioni:

      • Una moltitudine di informazioni e una potenziale conoscenza infinita: le best practice di qualsiasi cosa sono a portata di mano.
      • La consapevolezza che non ci siano certezze: la validità di ogni cosa è in gioco finché non viene superata dalla successiva scoperta, più aggiornata e innovativa.

      Il nostro raggio di azione, di conoscenza, di competenza non è mai stato così ampio. Gli strumenti che ci permettono di misurare e di trovare risposte non sono mai stati così accurati, eppure l’ambiguità è palpabile in ogni cosa e la parola che fa da capolinea ad ogni riflessione è “complessità”. Non si può mai smettere di esplorare e di sperimentare. Questo contesto ci sfida quotidianamente, ci porta continuamente a farci nuove domande, a formulare ipotesi.

      Ci dicono che per guardare oltre la siepe dobbiamo smettere di ragionare per statement, piuttosto dobbiamo fare domande divergenti che spingano la riflessione un po’ più lontano. Ci raccontano che dobbiamo allenare la nostra sensibilità, in modo da riconoscere i pattern e da distinguere i segnali dal rumore di fondo.

      Infine sappiamo bene che non ha senso oggi immaginare un futuro solo, ma piuttosto avere davanti una molteplicità di scenari diversi, tutti possibili. Possiamo riscrivere, ritornare sulle cose, per vedere con più chiarezza cosa sta succedendo e come dargli senso.

      Lavorare sul futuro significa indagare gli scenari possibili, probabili, plausibili, preferibili. Ognuno di essi richiede abilità e competenze diverse e specifiche.

      Uno tra tutti però è il più importante. Si tratta di quello che scegliamo.

      Spesso immaginiamo il domani come una proiezione dell’oggi, un’estensione al quadrato della nostra realtà. Integriamo a quello che sappiamo qualche ingrediente in più in termini incrementali ed ecco che si forma il nuovo disegno. Possiamo chiamarlo “il futuro ufficiale”, che viene istituzionalizzato, perseguito con un piano preciso, che sia volto a minimizzare la varianza.

      Una domanda che forse non ci facciamo abbastanza però è questa: se ci immaginiamo tra 5 anni, come vorremmo essere? Cosa ci immaginiamo di diventare? Cosa invece non vogliamo vedere nello specchio?

      IL FUTURO CHE SCEGLIAMO

      Che ci sia una tempesta in corso ormai non serve neanche dirlo. Oggi alla vita pubblica partecipano almeno 5 generazioni diverse e tutte, a loro modo, concordano nel definire il contesto odierno “dai contorni sfocati”. Ebbene se ci troviamo in una tempesta e perdiamo l’orientamento, se non abbiamo una mappa precisa che ci indica la via cosa guardiamo?

      Qualche vecchio uomo di mare direbbe sicuramente “le stelle”.

      Il futuro desiderabile non premia la presunzione di certezza, non è raggiungibile se supponiamo di conoscere tutto e pensiamo di avere tutto sotto controllo. Serve sicuramente lungimiranza, ma serve anche portare con sé alcuni valori e principi chiave che indipendentemente dalle perturbazioni fuori non si spengono mai.

      In un presente (e in un futuro) complesso, affollato e confuso possiamo chiederci quali sono:

      • I nostri valori
      • Le nostre credenze
      • I nostri bisogni
      • E soprattutto i nostri scopi

      Lavorare sulla condivisione di questi significati ci rende immuni da ogni crisi, perché ci permette sempre di avere una guida.

      Qualcuno una volta ci disse: “cosa succede quando camminiamo verso l’orizzonte?”

      Facciamo 5 passi, e l’orizzonte si sposta un po’ più in là”

      Ne facciamo 100 ma l’orizzonte sembra sempre alla stessa distanza”

      Vorremmo afferrare il sole, ma nel suo splendore è sempre irraggiungibile.”

      Allora a cosa serve tendere verso l’orizzonte?”

      Ci spinge a camminare.”

      Possiamo essere in balia delle onde e lasciare che il futuro scelga per noi, o possiamo scegliere di modellarlo. Ma dobbiamo avere la scultura ben chiara nella mente, nel cuore, negli occhi e nelle mani che danno i colpi sul marmo.

      Le storie hanno un grande potere perché hanno una struttura chiara, descrivono un percorso, un viaggio, celano messaggi ben precisi

      Dunque, ci sono tre storie che ognuno di noi dovrebbe sempre avere con sé, per modellare il futuro, non più vicino alla realtà, ma più vicino ai sogni, alle aspirazioni vere e autentiche di ognuno di noi. 

      DOVE VOGLIAMO ANDARE?

      La prima storia è una storia sul futuro. Facciamo un salto nel domani e ci immaginiamo come saremo, cosa faremo. Certamente si tratta di un’immagine sempre in movimento di ciò che vogliamo diventare, ma se scegliamo di raccontarla creiamo la giusta ispirazione per raggiungerla.

      Ci dà la spinta necessaria per camminare

      • Ha un impatto positivo
      • Dà un senso all’agire
      • Dà una profondità alle azioni

      Come sarà un giorno la nostra azienda? Cosa racconteremmo se dovessimo descrivere una giornata di futuro?

      Questo è un utile strumento per avere chiarezza ed esplicitare in modo chiaro le proprie intenzioni

      DA DOVE VENIAMO?

      Le storie del passato ci guidano sempre e ci consentono di trovarci quando abbiamo perso l’orientamento.

      È stato spesso dimostrato che raccontarsi è “terapeutico”; perché permette di mettere ordine negli avvenimenti, capire meglio l’effetto che hanno avuto su di noi, talvolta prenderne le distanze, ma soprattutto connettere ogni esperienza al punto in cui siamo ora dandogli un senso in un’unica narrazione, che unisce chi eravamo e chi siamo. Ci dà la possibilità anche di riconciliarci con alcune delle nostre scelte, di accettarle, di soffermarci su cosa il percorso ci insegna. È liberazione, ricongiungimento, assunzione di responsabilità.

      Un profondo sguardo al passato che poi ci riporta al presente con l’energia di continuare il viaggio, crescendo e migliorando.

      Perché è importante:

      • Ci consente di individuare la nostra mission
      • Connette chi siamo a qualcosa di più grande
      • Ci lega alla passione per quello che facciamo e ci motiva

      IN COSA CREDIAMO?

      I valori sono solo parole scritte finché non vengono vissute, raccontate, persino sfidate a volte. Eppure costituiscono la bussola di ognuno di noi.

      Per viverli è utile scavare nella nostra esperienza:

      • Quando ho visto quel valore realizzato?
      • Quando ho visto in qualcuno un’esemplificazione di quel valore e come è stato agito?
      • Quando ho visto agito l’opposto e come mi ha fatto sentire?

      Lo stesso discorso è possibile farlo per tutta l’azienda in senso ampio:

      • Per cosa non accettiamo compromessi?
      • Cosa per noi non è negoziabile?
      • Quando ci sentiamo infastiditi? Cosa è stato minato?

      Per finire ecco un’ultima curiosità.

      Sembra che la miglior tecnica per modellare il futuro sia proprio immaginare a colori la realizzazione dei propri obiettivi, delle proprie aspirazioni e poi entrare in retromarcia, per individuare i passi che si consentono di arrivare dove vogliamo e ci riporta al presente

      Ci permette di uscire dalla “gabbia del presente” e dai nostri binari quotidiani per scrivere meglio la nostra storia.

      I 17 obiettivi per la sostenibilità dell’agenda 2030 pubblicati dall’ONU sono stati individuati proprio con questo metodo, partendo dalla prosperità del pianeta.

      Scegliamo la stessa strada per un futuro di longevità e bellezza.

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    • futuro

      Rendere il futuro visibile con il linguaggio delle storie

      Non bastano la creatività, lo spirito di innovazione e nemmeno la chiarezza di visione o di futuro desiderato, per rendere il domani che scegliamo una reale possibilità.

      Realizzarlo e progettare qualcosa di nuovo è un’altra storia, che implica il superamento di alcuni ostacoli.

      In generale: nelle organizzazioni è importante proteggere ciò che è stato costruito e ciò che è conosciuto. Questo è facilmente attuabile con misurazioni e pianificazioni definite, pertanto, anche quando è evidente l’intenzione di attuare un cambiamento spesso può entrare in conflitto con il vortice sempre attivo di rigide scadenze nel day by day.

      Inoltre, non è detto che le persone vedano facilmente le prospettive future, perché prefigurarsi il domani è un’attività estremamente stancante e costosa. È più facile cogliere le esigenze del presente o guardare al passato come modello di riferimento.

      L’entusiasmo di qualcuno, anche se condiviso a tutti i livelli dell’organizzazione, non è un driver sufficiente al cambiamento. Prima di tutto è necessario superare le abitudini e generare una spinta tale da rendere il progetto una priorità, da prendere in considerazione al pari di ciò che è già stato pianificato.

      VEDERE

      Come spesso abbiamo raccontato il raggiungimento di qualsiasi obiettivo parte dalla prefigurazione, o meglio dall’immaginazione, dalla visualizzazione del futuro che vogliamo realizzare e la strategia migliore per andare verso il futuro è rendere partecipata la progettazione del domani, mettendo in moto più menti per fare un viaggio di qualche anno più lontano.

      Se poi le menti sono di persone diverse, per età, per esperienze, per cultura o provenienza geografica, la ricchezza è ancora maggiore e la fotografia del domani avrà colori più vividi e nitidi.

      Tuttavia dobbiamo riconoscere che oggi prefigurarsi il futuro e comprendere davvero gli elementi chiave per la propria longevità non è un gioco da ragazzi. Tanto che gli esperti hanno concettualizzato un termine per descrivere un fenomeno che ci vede coinvolti tutti, indipendentemente dalla nostra generazione di appartenenza o dal contesto di riferimento.

      Parliamo di presentismo: una focalizzazione diffusa e quasi esclusiva sul presente, con una scarsa, e a volte assente, capacità di proiettarsi nel futuro, sia come capacità di immaginarlo in modo spontaneo, sia di riuscire a formulare delle previsioni, anche in termini di probabilità.”

      Pertanto proiezione, e proattività, verso il domani, per la gran parte di noi risultano ovattate, diminuite, in relazione con scenari in mutamento continuo e con orizzonti temporali limitati, dove ciò che può accadere è talmente imprevedibile da farci sembrare ogni possibilità equiparabile all’altra.

      È stato dimostrato tuttavia che esistono strumenti per estendere il proprio sguardo, e che alcune persone hanno la capacità di cogliere meglio di altre i segnali, per evidenziare tutte le connessioni più utili a prevedere cosa accadrà e a farlo succedere.

      Chi ha tra tutti la capacità di una visione più ampia ha la responsabilità di estendere agli altri il suo sguardo, prestando i suoi occhi, perché non esiste altro modo per realizzare il proprio sogno, se non rendendolo tangibile.

      Un bell’esempio ci arriva dal direttore di una compagnia di hardware e software, che per mostrare ai suoi collaboratori la sua idea di sviluppo aziendale, cinquant’anni fa decise di ingaggiare i migliori disegnatori delle fiction, così da raccontare i tanti scenari del domani preferito attraverso storyboard, mock up e persino rappresentazioni tridimensionali.

      Mise in scena un futuro dove la realtà virtuale era diffusa, dove tra le persone erano presenti robot con lo scopo di svolgere mansioni utili. Ebbene, questo futuro oggi è realtà anche grazie alla grande spinta della sua compagnia e alla lungimiranza del suo leader.

      IL LINGUAGGIO DELLE STORIE

      Per vedere il futuro occorre letteralmente VEDERE, definire i colori dell’orizzonte. Ecco perché una narrativa accompagnata dalle immagini è una strategia potente per portare il futuro in vita.

      Più la storia è completa, più ha personaggi connotati, più ha dettagli vividi, più sarà efficace.

      Ecco alcuni ingredienti fondamentali per la migliore trasmissione di una visione:

      • Avere sempre con sé una storia accessibile a tutti
      • Avere un contenuto visuale
      • Pensare a una storia condivisibile, che generi advocacy e che sia estendibile al NOI

      Questo permette a tutti i membri dell’organizzazione di sentirsi parte del nuovo futuro.

      La presenza di un artefatto condivisibile è un elemento chiave perché aumenta l’accessibilità alle informazioni, ne aumenta la visibilità, è uno strumento di engagement tanto forte tanto più il contenuto è emozionante, motivante e indimenticabile.

      Filippo Brunelleschi, uno dei leader più grandi di cui ci piace raccontare, riuscì a coordinare un progetto ambizioso e a prima vista impossibile, proprio grazie a questo potere.

      Scolpì la frutta e la verdura per mostrare ai suoi collaboratori il funzionamento del progetto e oltrepassare le barriere linguistiche; utilizzò persino il guscio di un uovo per mostrare con chiarezza sua visione del Duomo.

      IL CHE C’È C’È

      Il che c’è, c’è, dicono i toscani.

      Se non fossimo abbastanza creativi? Se non avessimo il tempo o le risorse per realizzare una presentazione efficace e condivisibile della nostra storia?

      A volte bisogna accontentarsi di quel che si ha; realizzare artefatti e prototipi ogni volta che si rende necessario illustrare un’idea può essere costoso.

      Dunque come si fa?
      Sebbene il futuro ci appaia astratto, lontano e difficile da concretizzare, possiamo renderlo tangibile e visibile se lo immaginiamo come un continuum, dove il presente di oggi era il domani per i nostri predecessori.

      Se ci pensiamo, molti tratti della nostra realtà attuale erano già stati intuiti oltre cinquant’anni fa.

      Prendiamo come esempio lo storico cartone animato del 1962 “I Jetson”.

      I suoi autori immaginarono già negli anni sessanta un futuro in cui esistevano:

      • Macchine volanti
      • Robot domestici
      • Telefoni e tecnologia avanzata
      • Video conferenze

      Ciò che in passato sembrava irraggiungibile, ad oggi è più che realistico e ciò che ora ci sembra impossibile un domani potrebbe essere più che probabile.

      Dunque, se i film del secolo scorso hanno predetto così bene il futuro di oggi, non potremmo supporre che esistano già tanti progetti, film, libri, che si avvicinano alla realtà verso cui dirigiamo lo sguardo?

      Un grande trucco è condividere la propria visione a partire da ciò che c’è già.

      Nella nostra filmografia e nella letteratura internazionale ci sono molte opere in cui questo salto temporale è già stato fatto e forse possiamo usarli come una mappa, per partire e per orientarci meglio.

      Nel 1949 George Orwell scrisse 1984 evidenziando già allora i pericoli della tecnologia e la proliferazione delle telecamere. Oggi, nel 2023 il suo ritratto, per certi versi, ci sembra attuale.

      Lo stesso discorso possiamo farlo per serie TV come Black Mirror o per film come Her, che ci mostrano possibili sviluppi dell’intelligenza artificiale.

      I media parlano spesso di futuro e possono aiutarci nelle conversazioni strategiche, anche come premessa di dialogo.

      Un suggerimento?

      Possiamo leggerli alla luce di alcune domande chiave

      Per esempio

      • Chi vince in questa storia?
      • Quali sono i rischi di questa situazione?
      • Cosa è vero di quel che vediamo oggi?
      • Cosa sta germogliando e che orizzonte viene disegnato?
      • Cosa possiamo imparare di più?

      Lo ha fatto anche Facebook prima di ideare il metaverso: ha chiesto a tutti i suoi dipendenti di leggere Ready Player One, per condividere la visione del futuro e permettere alle sue persone di socializzarvi.

      UN FUTURO A COLORI

      Qual è il modo più semplice per rendere visibile qualsiasi concetto? I bambini che eravano un tempo conoscono molto bene la risposta.

      Lo avrebbero di certo DISEGNATO

      Gli esseri umani lo fanno da sempre, basti pensare alle pitture rupestri. Oggi invece l’abilità di tracciare qualche linea viene spesso vista come una qualità degli artisti. Eppure è una skills comunicativa potente e alla portata di tutti.

      Anche un quadrato, un cerchio e una serie di linee possono dare vita ad una visione molto meglio di molte parole in fila.

      CONDIVIDERE LA TUA STORIA

      Bateson diceva che “la nostra specie pensa per metafore e impara attraverso le storie” sono questi gli elementi che permettono di riempire le parole di emozioni e rendere i dati davvero visibili.

      Un racconto davvero avvincente, qualsiasi sia il tema, deve avere il potere di toccare contemporaneamente la testa e il cuore, perché è vero, sentito, ed autentico.

      SUPERARE GLI OSTACOLI SUL CAMMINO DEL FUTURO

      È chiaro che sul cammino ci saranno sempre resistenze

      • Magari a causa di un limitato quantitativo di risorse
      • Magari perché il futuro visto non è compatibile con i piani
      • Magari perché abbandonare ciò che è consolidato spaventa

      Per vedere il futuro serve tempo e quindi è importante lasciarne libera una piccola parte e dedicarla a questo, attraverso una struttura aziendale che preveda l’esplorazione. Alcuni studiosi per esempio utilizzano la tecnica del future wall, un muro da riempire, di carte e disegni, da discutere nel giusto tempo.

      Infine è importante capire che la capacità di guardare lontano è come un muscolo, che va allenato quotidianamente, per accettare l’incertezza, incrementare l’innovazione, affrontare l’ambiguità vedendola come un insieme complesso e a tratti stupefacente di connessioni.

      COME PUO’ TUTTO QUESTO ESSERE APPLICATO AD UN’AZIENDA?

      Qualcuno disse: “l’ importante non è realizzare il futuro, ma generare nei leader delle aziende l’empowerment necessario per modellarlo”

      Questo significa comprendere a pieno:

      • Cosa facciamo
      • Cosa sentiamo
      • Cosa pensiamo
      • Di cosa abbiamo paura
      • Qual è l’ecosistema di cui facciamo parte

      È vitale visualizzare il framework: lo scenario e i personaggi, per collegarsi emotivamente al futuro ed elaborare conoscenze personali e per l’organizzazione.

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    • tempo, diversità

      Tempo, diversità e scenari di futuro

      PARLIAMO DI TEMPO PER GUARDARE AL FUTURO

      Non possiamo riferirci al futuro senza parlare del concetto di tempo poiché parlare del futuro significa uscire dal presente, porre il nostro sguardo oltre la siepe, riferirci alla longevità e all’effetto delle nostre azioni.

      Probabilmente il tempo è ciò che c’è di più democratico. Scorre nella stessa maniera per ognuno di noi e le lancette fanno lo stesso giro, ogni giorno, inesorabilmente.

      Le giornate si susseguono, il giorno si alterna alla notte, la luna compie le sue fasi, le stagioni cedono l’una il posto all’altra con un ritmo scandito.

      Nel frattempo, il nostro cuore batte, regolarmente, senza il nostro controllo e così la vita va avanti.

      Eppure la percezione del tempo non è uguale per tutti, così come è diverso il modo con cui guardiamo al futuro.

      Seneca, nel De Brevitate Vitae, diceva che il tempo è la risorsa più preziosa che abbiamo, ma, dato che è intangibile, la doniamo e la spendiamo senza considerare la sua ricchezza; tanto che talvolta dimentichiamo il suo valore.

      Gli studi oggi ci suggeriscono che esiste una connessione potente tra la concezione che abbiamo interiorizzato del tempo e le competenze comportamentali che abbiamo la possibilità di sviluppare e di mettere in campo.

      Se ci proiettiamo nel futuro, la multiculturalità e il dialogo tra diverse generazioni possono rivelarsi elementi strategici per avere una concezione del tempo ampia ed integrata.

      Scopriamo come e perché…

      Sembra che si possano definire tre visioni diverse del tempo.

      IL TEMPO NEL MONDO ANTICO

      Immaginiamo di essere nell’antica Grecia, molti anni prima della nascita di Cristo.

      Gli uomini osservano il passare del tempo e lo rappresentano in una forma circolare.

      La vita va avanti, ma gli eventi tornano e si ripropongono, apparentemente indipendenti dalle nostre impronte, quasi come l’infrangersi delle onde sulla spiaggia dove abbiamo appena camminato, e questo mantiene sempre forte la fiducia del rinnovato ristabilirsi di un equilibrio, anche nella complessità.

      Il futuro si ripropone nel passato e il passato nel futuro. E Il presente?

      In presente funge da connettivo tra queste due dimensioni.

      Questa visione, legata al mondo classico, guarda al tempo con distacco e rispettosa passività, quasi a riconoscerne la sua ineluttabile indipendenza e riconducendolo ad una dimensione più “naturale” e “ambientale”.

      Il tempo fa capo al mondo e l’uomo, che è parte del mondo, vive questo tempo consapevole della sua dimensione più ampia.

      IL TEMPO NELL’ETA’ MODERNA

      Se invece proviamo ad immergerci in un’era più moderna, ecco che il tempo assume una forma lineare: è una freccia dove il futuro diventa il centro di gravità.

      Per questo i moderni sono stati spinti a sviluppare in sé stessi e contemporaneamente a chiedere agli altri delle competenze di “costruzione del futuro”. Sono naturalmente predisposti all’innovazione, alla progettualità, alla creatività.

      Si tratta di una dimensione molto più “umana”; l’uomo è la misura dell’avanzamento, quindi percepisce il trascorrere del tempo, si rende conto che non può cambiarlo e cerca di governarlo, in modo da osservare la crescita, sua e delle cose.

      La vita dell’uomo e di ogni persona non si ripete, va avanti su una linea, e non è possibile “fare marcia indietro”. Questa visione, che permette a tutti noi di percepire l’evoluzione, conferisce più importanza alle azioni, cosicché saliamo sul palco della storia e possiamo avere visione delle nostre tracce.

      È importante vedere come non siano visioni alternative e mutuamente escludenti; possono coesistere, con gradienti diversi da caso a caso, dipendentemente da fattori geografici, culturali, sociali, personali.

      Alcune religioni, per esempio, ci portano a vedere il tempo nella sua ciclicità e nella sua ripetitività, a prescindere dall’epoca in cui siamo nati e viviamo.

      IL TEMPO DIGITALE

      Oggi a queste due dimensioni di concezione del tempo che comunque permangono, se ne aggiunge una terza: il tempo digitale.

      Improvvisamente il tempo non è più una retta proiettata verso il futuro e verso la crescita, ma è un “qualcosa” che va più veloce di noi.

      E noi corriamo fortissimo per rimanere al “passo”, ma abbiamo la sensazione che ci manchi il respiro e che, per rimanere in sella, dobbiamo adattarci, essere flessibili, pensare continuamente a nuove soluzioni.

      Diventiamo predisposti all’impermanenza.

      Se gli antichi vedono lo scorrere del tempo dall’alto e i “moderni” cercano di governarlo, i “contemporanei” sono predisposti a “fondersi all’orologio”. La stessa parola “digitale” sottende il concetto di “tocco” e di sensazione.

      Percepiamo il tempo con un coinvolgimento emotivo fortissimo, in prima persona. Le emozioni ci attraversano continuamente e ci portano ad osservare, talvolta con frustrazione, i continui cambi di scenario.

      Il tempo digitale praticamente azzera sia la dimensione del ritorno, sia la prospettiva del futuro e le sostituisce con uno stato di precarietà. Il “succedere” è la cifra della dimensione digitale in cui presente e il passato si fondono e il futuro diventa l’attesa del prossimo mutamento

      Continuamente superiamo noi stessi, le nozioni che apprendiamo vengono sviluppate nuovamente, le idee che trasmettiamo si diffondono e si trasformano. La velocità ci permette di percorrere sempre più spazio nello stesso tempo, ma abbiamo la sensazione che ogni cosa ci sfugga di mano perché la dimensione è virtuale.

      MA PERCHÉ È IMPORTANTE CONOSCERE E COMPRENDERE TUTTE LE DIMENSIONI?

      • La prima dimensione è istintiva, naturale, riflessiva e spirituale.
      • La seconda ci dona il controllo e lo spazio dell’autodeterminazione.
      • La terza concezione è legata al cambiamento costante e alla proiezione verso il nuovo.

      Eppure… più cose nuove cerco, più scoperte faccio, più il tempo va in fretta e servono strumenti evoluti ed inediti.

      Se riusciamo a fare coesistere le tre dimensioni nello stesso contesto le persone saranno più portate ad alternarle nel modo di stare in relazione tra loro e nel mondo, rendendoci capaci di maggiore adattabilità a differenti situazioni e prospettive.

      Per farlo abbiamo bisogno di generare dialogo, tra generazioni diverse, tra culture diverse, tra lingue diverse. È proprio questa diversità che ci rende custodi, insieme, di una visione ricca e completa.

      Se invece non costruiamo un ponte per permettere un dialogo generativo e di valore, ognuno di noi potrebbe fossilizzarsi sulla propria visione di futuro, rischiando così di percepire un disallineamento rispetto alle attese e alle competenze agite nel confronto con chi ha una visione del tempo diversa.

      Quindi possiamo accendere e alimentare il confronto per…

      • lavorare sulla progettualità
      • prefigurarci la realizzazione di una strategia
      • mettere in campo tutte le competenze di cui siamo portatori

      Ecco un’altra preziosa ragione per lavorare sulla comunicazione, a vari livelli, partendo da una nuova e curiosa domanda.

      Qual è il tempo che oggi ci portiamo dentro?

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    • start with why

      Start with why

      Esistono le aziende “Disneyane?”, dove il contributo di ognuno è frutto di passioni e credo condivisi?

      Secondo Simon Sinek esistono, sono quelle che creano la loro cultura e definiscono la propria attività partendo dai perché.

      Sappiamo perché facciamo quello che facciamo? Sappiamo perché la nostra azienda lavora a quello a cui sta lavorando?

      MA PERCHÉ?

      Perché è stato proprio Martin Luter King a creare il movimento per i diritti civili? Non era l’unico uomo che ha sofferto l’America della segregazione razziale e non era neanche il migliore oratore tra tutti.

      Perché lui allora?

      Perché i fratelli Wright sono stati in grado di rendere gli esseri umani capaci di volare? Come mai proprio loro hanno creato l’aeromobile, se altri con più qualifiche e con più denaro, non ci sono riusciti?

      C’è qualcos’altro che gioca un ruolo fondamentale, qualcosa che non c’entra con le risorse fisiche e tangibili che abbiamo a disposizione.

      3-4 anni fa Simon ha fatto una scoperta, che ha cambiato la sua visione di come funziona il mondo e di come agire al meglio.

      C’è un pattern, rintracciabile in tutti i grandi leader e in tutte le aziende che ispirano il mondo. Loro pensano, agiscono, comunicano, nello stesso modo, molto diverso da tutti gli altri.  Tutto quello che ha fatto Simon è stato codificarlo. In un cerchio dorato

      THE GOLDEN CIRCLE DEL SISTEMA CERVELLO

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      Credit: Simon Simek. The Golden Circle

      Questo cerchio spiega perché i grandi leader sono abili a ispirare gli altri.

      Tutte le persone, nelle organizzazioni, conoscono quello che fanno ogni giorno: Il 100% è informato. Pochissimi conoscono il perché, e non è mai “generare profitto” il motivo per cui un business ha vita, il profitto non è che un risultato.

      Perché l’organizzazione esiste? Da quale proposito è nata?

      Le organizzazioni più longeve hanno sempre chiara la risposta, indipendentemente dalla loro estensione e dal loro tipo di attività, lo trasmettono agli utenti e alle loro persone.

      Tutti gli altri si raccontano partendo dal loro servizio offerto, perché è tangibile ed evidente sempre ai loro occhi.

      Rispondere con un servizio ai bisogni di un’utente non è sufficiente.

      L’ aspirazione migliore, e più strategica, è fare business con persone che credono in quello in cui crede l’azienda. Questo è l’unico vero garante di stabilità.

      UNA QUESTIONE DI BIOLOGIA DEL SISTEMA CERVELLO:

      Le persone non comprano quello che fai, comprano perché lo fai

      E questa scoperta non è una semplice assunzione, non è neanche frutto di esperimenti di psicologia. È biologia.

      Il cervello umano può essere schematizzato in tre parti

      • Neocorteccia
      • Cervello limbico
      • Cervello rettile

      La neocorteccia corrisponde al livello del COSA. È quella deputata al linguaggio e al pensiero razionale e analitico. Le ricerche confermano che in tutte le maratone arriva sempre per ultima.

      Il sistema limbico è responsabile delle emozioni, e di gran parte del decision making, sta a metà del cerchio (HOW). Dà forma ai nostri sentimenti ed è profondamente collegato alla parte più profonda e primitiva del nostro cervello, quella rettile.

      Lei taglia subito il traguardo della corsa.

      Il cervello rettile risponde direttamente della nostra sopravvivenza, cerca ragioni istintivamente, per capire se può fidarsi o non fidarsi dell’altro (WHY),

      La fiducia e la lealtà, i comportamenti, le decisioni, non hanno grande spazio per le parole e prescindono dal controllo di tutte le informazioni di dettaglio, perché nascono tutte dal centro di questo cerchio.

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      Da fuori a dentro: dal COSA al PERCHÈ

      Quando comunichiamo da fuori a dentro le persone possono capire una serie di informazioni dettagliate e complesse, che riguardano benefici, qualità, fatti, figure, ma questo non è un driver del comportamento abbastanza potente.

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      Da dentro a fuori: dal PERCHÈ al COSA

      Quando invece comunichiamo da dentro il cerchio verso fuori, parliamo direttamente alle parti del cervello che sono responsabili dell’avvicinamento o dell’allontanamento, dei comportamenti più istintivi, che poi le persone razionalizzano con le informazioni aggiuntive e tangibili nel “WHAT”.

      Questo è il sistema con cui vengono prese le decisioni dalla maggior parte delle persone.

      “L’homo economicus”, logico e razionale, non esiste, ormai lo sappiamo da diversi anni.

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      Tutte le informazioni del mondo non alimentano l’avvicinamento. Gli interlocutori potrebbero comunque dire: “conosco tutti i fatti e i dettagli, ma comunque non mi sembra il servizio giusto per me, non sono convinto.”

      Perché questa sensazione?

      Perché la parte che controlla davvero le decisioni non controlla, né conosce il linguaggio del dettaglio. Tutte le decisioni di “cuore”, di “pancia”, avvengono al livello del centro di questo cerchio. Le informazioni sul “Cosa” poi sono un acceleratore finale.

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      Nel cuore della decisione

      Il traguardo che bisogna porsi di raggiungere non è avere persone che vogliono quello che abbiamo, ma persone che credono in quello che crediamo.

      SISTEMA CERVELLO: UNA QUESTIONE DI COMMITMENT

      Lo stesso ragionamento può essere fatto quando si seleziona il personale, o si costruisce qualsiasi team. Il punto non è solo scegliere le persone che sanno fare bene un lavoro, ma trovare chi scelga di farlo perché crede in quello in cui crede l’azienda.

      Se recluti persone solo per quel che sanno fare, lavoreranno per lo stipendio. Se le selezioni perché credono in quello in cui credi lavoreranno con passione.

      La perfetta esemplificazione di questo è nella storia dei fratelli Wright.

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      Siamo nel 20° secolo, di fronte a uno degli imprenditori più promettenti all’epoca. Ha appena ricevuto 50.000 dollari dal dipartimento di guerra per sviluppare un dispositivo che consenta all’uomo di volare ed è stato scelto per la sua incredibile formazione ad Harvard. Così ha assunto le migliori menti ha creato la sua squadra. Le condizioni di mercato erano ottime. Il New York Times lo seguiva per documentare ogni scoperta. Tutti facevano il tifo per lui.

      Eppure come mai non ne abbiamo mai sentito parlare?

      Molte centinaia di miglia più lontano…

      In Dayton Ohio, Orville e Wilbur Wright non avevano nulla che potesse essere definito come ricetta per il successo, né grandi fondi, né menti brillanti, fresche di College. Pagavano i loro progetti con il ricavato di un negozio di biciclette.

      Orville e Wright erano guidati da un credo potente: se fossero riusciti a ideare e progettare questa macchina volante, la macchina avrebbe cambiato il corso del mondo. Il favorito del New York Times, invece, voleva diventare ricco e famoso ma l’obiettivo non aveva per lui un significato più profondo di questo.

      Il team dei Wright lavorava ininterrottamente, con passione, e con tutte le forze. La squadra avversaria lavorava giusto per la generosa busta paga.

      17 dicembre 1903, i fratelli hanno preso il volo e il mondo lo ha saputo solo alcuni giorni dopo.

      I BELIVE IN

      Nell’estate 1963, 250.000 persone sono andate nello stesso posto per ascoltare Martin Luter King parlare, senza un invito scritto.

      Il Dr. King non era l’unico uomo in America ad essere un grande oratore. Ma aveva un dono. Non è andato in giro a raccontare alle persone di cosa c’era bisogno per cambiare l’America: lui ha raccontato alle persone in COSA LUI CREDEVA.

      “Io credo, io credo, io credo” e anche le persone ci credevano. Le persone hanno preso la sua causa, l’hanno resa la loro e hanno trasmesso, ad altre persone, la stessa cosa.

      Quante delle 250.000 persone davanti a lui erano lì per lui? ZERO. Erano lì per essere testimoni di ciò che credevano per la loro America.

      King disse: “I have a dream”. Non disse “I have a plan”.

      Per Simon chi guida davvero, ispira

      Seguiamo chi guida, non perché dobbiamo, ma perché lo vogliamo.

      NOI SEGUIAMO CHI GUIDA, NON PER LORO, MA PER NOI STESSI.

      Sono quelli che iniziano con il perché.

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    • Il desiderio di aggiungere

      Il desiderio di aggiungere

      Stiamo muovendo i nostri passi su un cammino nuovo, dettato dai tracciati che il lavoro ibrido ha disegnato sul terreno.

      Il desiderio di aggiungere è più forte che mai.

      Il cammino delle aziende oggi ha i contorni e le forme intensamente e profondamente umani.

      Lungo la strada le emozioni, i vissuti, le opinioni di tutte le persone occupano sempre più spazio, potremmo dire che costituiscono l’essenza stessa dell’ambiente che ci circonda.

      Abbiamo a lungo parlato della visione, come ciò che ci guida e ci spinge ad intraprendere passi futuri. Ma la visione del futuro si costruisce proprio grazie ad una profonda connessione al sistema e alle persone, le cellule di cui il sistema è fatto.

      La visione è possibile se uno sguardo, o meglio, tanti sguardi, sono proiettati in avanti, se è forte la capacità di sentire, di guardare dentro la complessità del sistema e di pensare radiale; di stimolare il nostro mindset ad apprendere nella forma di mappa mentale, anziché in un binomio causa effetto, imparando a stare nella complessità, la stessa che contraddistingue le più belle tessiture e i dipinti più meravigliosi.

      Di cosa è fatta questa complessità, questo desiderio di aggiungere?

      Che cosa succede oggi?

      Corriamo verso l’innovazione tecnologica, corriamo per ridurre il time-to-market, corriamo per intuire i nuovi bisogni di un mondo sempre più flessibile, dinamico, instabile.

      I contesti sono sempre più competitivi, i prodotti cambiano più velocemente di quanto non si impiega ad affinarli, cresce la competitività, mutano le esigenze delle persone di giorno in giorno, poiché lo stesso ambiente intorno a loro si trasforma ad una velocità mai vista.

      Io cliente cosa desidero davvero? Di cosa ho bisogno?

      Cerco un servizio che non solo mi serva ma sia in risonanza con chi sono.

      È chiaro che non basta avere gli strumenti per sviluppare un progetto tecnicamente perfetto, oggi i prodotti più venduti rispecchiano i nostri valori, la visione di chi vogliamo essere.

      Servono nuove competenze, serve aprire lo sguardo e orientarsi a un ascolto davvero profondo, per cogliere dal terreno anche i segnali più sottili.

      Questo quadro è lo stesso anche per la funzione commerciale delle aziende, per chi diffonde e propone servizi sul mercato.

      Un quadro che potrebbe essere dipinto dal Botticelli, o dal grande Leonardo da Vinci.

      LE BOTTEGHE FIORENTINE E L’ORIENTAMENTO ALLA SCOPERTA

      La stessa rivoluzione di oggi ha radici nel passato e nella storia dell’arte.

      Per vederla entriamo tra i colori e i pennelli di due botteghe pittoriche italiane.

      Nel 1400 Firenze era la culla di due delle più importanti botteghe artistiche, diverse nello stile e nell’approccio: quella di Domenico Ghirlandaio e di Andrea Verrocchio.

      Il Ghirlandaio vantava opere caratterizzate da una ricchezza di armonia e di dettaglio ammaliante per la borghesia dei tempi. La sua arte era connotata da sfumature di perfezione, grazie ad una tecnica e un’accuratezza ineccepibili. In effetti la precisione, nella riproduzione, era il più grosso vanto della bottega; vanto con cui sapeva attirare la ricca borghesia, con la promessa sempre esaudita, di poter riprodurre fedelmente la realtà.

      Il Verrocchio era, anch’esso, riconosciuto per l’incredibile armonia compositiva e per la fedeltà con la quale sapeva riportare anche i particolari più fini, ma lo sguardo del pittore e dei suoi allievi si apriva a molto altro.

      La bottega era un luogo di scambio, di confronto e di cultura. Il maestro mirava ad accogliere realtà diverse, scoprire nuovi saperi anche abbastanza lontani dal mondo della pittura; raccoglieva con passione una costellazione di molteplici punti di vista, circondandosi di esperti di qualsiasi mestiere e disciplina per la passione della scoperta e del nuovo.

      Tra i pittori di questa bottega ricordiamo Da Vinci, Perugino e Botticelli, artisti che amavano osservare, imparare, ed erano appassionati ad ogni forma di conoscenza.

      Tutti conosciamo la bellissima primavera di Botticelli, ma in pochi sappiamo che la varietà di piante che decorano la scena non sarebbe stata dipinta senza che anche un botanico prestasse la sua conoscenza al pittore.

       

      Parliamo dell’espansione continua della propria rappresentazione del mondo, della volontà di spingersi oltre e di ascoltare davvero ogni segnale.

      La riproduzione tecnica oggi non basta più, oggi non basta rendere il visibile, ma bisogna rendere VISIBILE.

      Così faceva la bottega del Verrocchio che non si limitava ad un disegno funzionale alle richieste del committente, era autrice di un’opera autonoma frutto di una formazione dei pittori non solo professionale, ma culturale a tutto tondo.

      Il Verrocchio non chiedeva ai suoi allievi di riprodurre fedelmente la realtà, piuttosto faceva crescere il loro il desiderio di Aggiungere.

      Grazie alla Bottega del verrocchio l’arte del 400 si rivoluziona, l’artista non è più solo un grande esecutore, capace di garantire un elevato livello di qualità, con un terreno prescritto, uno spazio discrezionale. L’artista passa da essere «artefice», quindi artigiano, a vestire i panni di «intellettuale» e quindi creatore di quello che fa.

      Tutto questo fu possibile grazie ad una mentalità generativa e non esecutiva unita ad un forte interesse e contatto con gli stili di vita e le scoperte dell’epoca.

      È proprio in questa cultura e in questa scuola di pensiero che cresce Leonardo da Vinci. Per noi un grande esempio, cui ogni commerciale può fare riferimento.

      LEONARDO DA VINCI: LA VERITA SUL SUO QUADRO “SBAGLIATO”

      Da che punto guardi il mondo, tutto dipende” 

      Jarabe de Palo 

      Ad oggi, le aziende più forti sul mercato veicolano un messaggio inserito in una profonda corrente valoriale. Il cosa fanno è intrisecamente legato al perché. Ma non solo… Sanno immedesimarsi, con cura e attenzione, nel cliente e comprendere in che modo quest’ultimo possa sentirsi rappresentato dal servizio o dal prodotto che acquista. 

      Mettono davvero le persone al centro. 

      Ecco… “Mettersi nei panni dell’altro” è esattamente ciò che nel 1400 il grande artista Leonardo Da Vinci fece, nell’opera L’ANNUNCIAZIONE. Dipinto, posto, fin dal primo momento, all’occhio della critica, che lo ha definito un errore di gioventù, ma come mai? Osservando la vergine si nota che il braccio destro è evidentemente più lungo del sinistro, le gambe sono più corte rispetto all’altezza del busto.

      Eppure, un errore del genere da parte di Leonardo non se lo aspetterebbe nessuno.

      Uno dei massimi esperti di Leonardo Da Vinci, Carlo Pedretti ci porta una visione differente: l’errore di prospettiva è in realtà voluto.

      Se osserviamo l’Annunciazione da una posizione laterale a destra, la sproporzione non è più visibile, anzi, il disegno risulta perfettamente armonico.

      Ciò accade per effetto dell’anamorfismo, fenomeno ottico per cui un’immagine viene proiettata sul piano in modo distorto, rendendo le figure originali riconoscibili solamente se il quadro viene osservato secondo certe condizioni.

      In effetti è molto probabile che la destinazione dell’opera fosse, una parete, o l’interno di un mobile semichiuso, che sarebbe stato prevalentemente guardato da destra.

      Come visionario, artista, inventore, Leonardo ha studiato con accuratezza e precisione il modo in cui l’osservatore avrebbe percepito l’opera, senza dimenticare la stanza nel quale sarebbe poi stato collocato.

      Un occhio attento al prodotto, al servizio, e a come comunicarlo, non può che essere d’ispirazione alle grandi aziende di oggi, che prima di creare, costruire e modificare, devono saper guardare, ascoltare e connettersi profondamente al sistema.

      Ecco un esempio di come mettere davvero la persona, l’osservatore, il cliente, al centro.

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    • Facciamo un viaggio verso il futuro

      Facciamo un viaggio verso il futuro? Questa è la Sales Excellence

      Oggi la funzione commerciale (Sales Excellence) ha un compito importante: accompagnare e traghettare il cliente in un viaggio dal presente al futuro.

      Cosa significa questo?

      L’espressione Sales Excellence significa che l’azienda non deve più chiedersi come vendere valore in ogni fase del processo di vendita, né la sua attenzione deve essere focalizzata sull’ideazione del progetto tecnicamente perfetto e ineccepibile. La competitività ora è troppo alta perché questo sia sufficiente.

      Le nostre scelte, siano esse scelte di acquisto o di qualsiasi genere, non sono il prodotto di un ragionamento logico estremamente accurato, sono piuttosto decisioni guidate dalle emozioni, dall’immagine che affermiamo di noi stessi, dalle nostre rappresentazioni del futuro desiderato e dalle relazioni che intratteniamo con gli altri.

      Noi, nei nostri percorsi di Sales Excellence con le aziende accompagniamo il viaggio verso il cambiamento e raccontiamo che per mettere a terra qualsiasi progetto è necessario che ci sia armonia e allineamento tra i diversi livelli del sistema quale è l’azienda.

      Lavoriamo affinché lo scopo profondo che muove l’azienda sia in linea con l’orizzonte futuro che vede davanti, con l’immagine di chi è, con i valori che vengono agiti, con le credenze delle persone e le abilità che vengono espresse, con le azioni e con l’ambiente in cui ci si muove.

      Anche l’acquisto è un viaggio di cambiamento, che parte da una decisione importante. Si tratta di mettere in campo una serie di azioni, che sempre di più sono guidate dai valori che sentiamo, dall’immagine che vogliamo dare di noi e dalle motivazioni che ci muovono verso le nostre mete.

      La decisione viene intrapresa con più facilità se questi livelli sono armonizzati e non sono in contrasto. Se ognuna di queste porte viene aperta per guardarci dentro.

      Ma c’è un altro aspetto che non possiamo dimenticarci quando si parla di Sales Excellence

      Già nel 2002 Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia, rilevò che tutti gli esseri umani percepiscono il valore delle cose e sono soliti prendere decisioni in uno stato di forte incertezza. Non valutano mai tutte le variabili possibili, come farebbe un calcolatore, per arrivare alla soluzione migliore sul mercato.

      Esiste una formula che spiega in modo eccellente la sua scoperta: DIFFERENZA= VALORE.

      Ma qual è la differenza che fa la differenza?

      Il valore di un servizio oggi è dato dalla differenza tra il mondo del cliente senza la nostra soluzione e il mondo del cliente con la nostra soluzione.

      La contrapposizione tra una finestra sull’oggi, con tutte le sfide e gli ostacoli che presenta, e sul domani, un mondo potenziale fatto di mete a portata di mano. Un mondo SENZA e un mondo CON.

      Nel nostro cervello è proprio questa differenza tra il presente e il futuro desiderato che crea valore.

      Ma che ruolo ha oggi il venditore? Perché si parla di Sales Excellence?

      In questa nuova realtà non funziona più elencare tutti i possibili vantaggi che il nostro prodotto o il nostro servizio possono portare; non funziona nemmeno abbassare continuamente il prezzo per abbattere la concorrenza.

      All’inizio di ogni trattativa un cliente ha un’idea piuttosto precisa del suo mondo SENZA. Senza la nostra soluzione. Alla fine, dovrebbe avere un quadro altrettanto chiaro dello stato futuro, di un futuro CON, e sulla base di queste rappresentazioni orientare le sue decisioni.

      Il venditore sempre di più accompagna, è un consulente ed è il facilitatore di una trasformazione.

      È un partner indispensabile ed è prezioso perché ci permette avere sotto ai nostri occhi tutti gli elementi necessari per decidere bene.

      Il lavoro con il cliente è un lavoro di co-creazione e di co-design, dove insieme si allargano due finestre, quella sull’oggi, per scoprire i bisogni e le richieste emergenti, così come gli ostacoli sulla strada, e quella del domani, per rendere più tangibile questo futuro e schiarire l’immagine per notarne i particolari.

      Occuparsi di Sales Excellence è un processo collaborativo fatto di 3 passi importanti:

      1. l’immaginazione;
      2. la sperimentazione anticipata dell’esperienza verso l’acquisto;
      3. il processo decisionale.

      Cosa mettere in valigia per fare questo viaggio?

      È indispensabile ricordarsi che il cammino parte dal cliente e che il lavoro migliore comincia da un ascolto autentico e profondo.

      Parliamo di un ascolto volto a comprendere l’altro nella sua interezza, che ci permetta di sperimentare davvero il punto di vista del cliente per metterci nelle sue scarpe, per un’esplorazione e per la co-creazione di un’esperienza. Magari è proprio in questo viaggio che il cliente scopre e prende consapevolezza dei suoi valori e di cosa vuole trasmettere al mondo.

      DA COSA POSSIAMO COMINCIARE? Il miglior modo per ascoltare è fare domande aperte e non avere paura di chiedere.

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    • Facciamo coaching

      Facciamo coaching! Ecco perché

      Chi siamo?

      È una domanda difficile, lo è per tutti, e anche noi ogni tanto ci raccogliamo insieme, ce lo chiediamo, e ci diamo delle risposte rinnovando e ricondividendo la nostra visione, la nostra mission e i nostri obiettivi.

      Lo abbiamo fatto proprio questo mese, per iniziare il nuovo anno con il piede giusto.

      Facciamo tante cose ma c’è un comune denominatore tra tutte: vogliamo essere catalizzatori delle trasformazioni culturali.

      All’interno dei sistemi, amplifichiamo il contributo delle persone generiamo connessioni per il risultato comune.

      Coaching: perché per noi il bene comune è il futuro del mondo.

      Lo facciamo in tanti modi.

      Uno di questi è il coaching.

      Perché?

      il coaching supporta le persone nel loro sviluppo professionale, orientandole a definire e perseguire un proprio percorso di crescita e miglioramento in accordo con il proprio ruolo e gli obiettivi aziendali.

       Il coaching, seppur risulti un intervento individuale, permette all’intera Azienda di sviluppare al massimo la propria competitività, innalzando le business performance delle sue risorse più preziose: le persone.

      Un percorso di coaching può supportare le persone a:

      1. ·   definire e diffondere nuove visioni e strategie in azienda;
      2. ·     essere focalizzati verso i risultati;
      3. ·     guidare le strutture verso il cambiamento;
      4. ·     evolvere nel proprio ruolo;
      5. ·     prendere decisioni complesse e impegnative;
      6. ·     gestire in modo funzionale eventuali criticità gestionali, organizzative e relazionali;
      7. ·     motivare gli altri verso i risultati;
      8. ·     costruire reti/rapporti di collaborazione

      Ognuno di noi ricerca equilibrio dentro di sé, nel contesto in cui vive e in quello in cui lavora. Equilibrio vuol dire sentirsi adeguati in situazioni complesse, essere efficaci nel perseguire risultati e vivere in armonia con gli altri.

      L’equilibrio che l’individuo trasferisce nel proprio contesto è lo specchio di un equilibrio interiore.

      Per queste ragioni Hermes basa la propria attività di Coaching su tre capisaldi:

      1. ·     la ricerca dell’armonia tra il pensare, il sentire e il volere, che porta la persona a decidere responsabilmente di cambiare e “come” cambiare
      2. ·     la ricerca di consapevolezza di sé che è la base della scelta e della costruzione di nuove azioni
      3. ·   il principio ispirativo del business etico e consapevole, che orienta verso risultati rivolti al benessere collettivo.

      IN CONCLUSIONE

      Si dice che un bravo chef sappia cucinare piatti d’eccellenza anche quando deve vuotare la dispensa e non ha che poche cose da poter utilizzare. Anche se gli ingredienti sono pochi sa come mescolarli insieme per creare qualche piatto unico. Invece chi lo chef non lo sa fare si lamenta di non avere gli ingredienti giusti per realizzare qualcosa di davvero buono.

      Insomma è chiaro che la differenza non la fanno davvero gli ingredienti, la fa la persona che li utilizza e il suo modo di valorizzarli.

      Il coaching utilizza una visione sistemica proprio per permettere alla persona di vedere se stessa nel modo più ampio possibile

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    • Strategia

      Implementare una strategia con un’efficacia del 250%? Ecco come

      Implementare una strategia con un’efficacia del 250%? Alcune ricerche ci raccontano che è possibile quando portiamo l’attenzione sulle esperienze che

      Può sembrare la frase di un Bacio Perugina.

      Eppure senza accorgercene ci stiamo muovendo già verso questa direzione.

      Le aziende stanno cambiando: agiamo per obiettivi promuovendo una cultura della responsabilità dove l’autonomia, l’iniziativa e l’autodeterminazione sono requisiti fondamentali di ogni lavoratore.

      Oggi le persone entrano nel mondo del lavoro con scopi più chiari, sogni vividi e la determinazione di non voler cedere a compiti “monotoni o routinari”.

      Il terreno mostra già chiare impronte di questa trasformazione: da una parte il picco più alto in Italia di istruzione e di scolarizzazione, che porta le giovani reclute a specializzarsi sempre maggiormente nelle branche di loro interesse, dall’altra un boom di dimissioni senza precedenti nelle regioni più produttive nella nazione, a segnalare un sentimento diffuso di stanchezza e una presa di decisione collettiva che porta a ridisegnare meglio il proprio percorso in funzione di quello che davvero si vuole realizzare.

      Come si muove in questo un’azienda in questo contesto?

      Un’ espressione che abbiamo sentito raccontare e a cui vogliamo aderire è quella di organizzazione come “FLOW PROVIDER”

      In parole semplici, parliamo di un’organizzazione che ha una visione ampia e sistemica e sa affidare alle persone giuste il ruolo giusto, in modo che le attività da loro svolte siano attività piacevoli, sfidanti, in linea con le abilità personali e con ciò che ognuna di loro vuole dire e dare al mondo.

      Mihaly Csikshentmihayli, padre della psicologia positiva, ha denominato “FLOW” un’esperienza di profondo assorbimento.

      Questa esperienza la sperimentiamo ogni qualvolta siamo assorbiti in un’attività che ci appassiona, per cui ci sentiamo competenti e che è abbastanza difficile da attirare la nostra completa attenzione.

      “Flow” significa flusso, perché le persone che la vivono descrivono le sensazioni provate come simili allo scorrere forte di un fiume in piena, di idee, di energie, di progetti.

      Alcuni atleti raccontano di sperimentare spesso il flow durante gli eventi sportivi; hanno una mente perfettamente lucida e si concentrano sulla performance dimenticandosi ogni altro pensiero o preoccupazione. Lo stesso raccontano gli artisti quando dipingono la loro rappresentazione della realtà e veicolano significati.

      Strategia, chi sperimenta il flow ha:

      • obiettivi chiari
      • un’alta concentrazione mirata su un’attività
      • un giusto equilibrio tra le competenze che ha e il livello di difficoltà di ciò che svolge
      • sente di controllare perfettamente le sue azioni
      • non sente altre preoccupazioni, ma crea uno spazio di vuoto dove nel cono attentivo la meta e il viaggio sono completamente a fuoco.

      Lo stato di “FLOW” ci porta a focalizzare la nostra attenzione fino ad assorbirla, alimenta la nostra concentrazione, accende la creatività, cresce esponenzialmente il nostro impegno e il tutto perché: CI FA SENTIRE BENE. In effetti, quando siamo “nel flow” fare ciò che facciamo è già di per sè una ricompensa.

      Siamo immersi, dentro l’acqua che scorre, la nostra energia si rinnova continuamente.

      • Questo ci porta ad essere profondamente in sintonia con le nostre emozioni,
      • A sentirci fortemente soddisfatti di ciò che facciamo
      • Ad avere un grande calderone di idee a cui attingere sempre
      • Ad essere consapevoli di poter raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati.

      Ecco perché alcuni studi sostengono che le persone in uno stato di “flow” sono più produttive del 200% e 250%.

      Cosa significa per un organizzazione essere “FLOW PROVIDER”?

      Oggi nelle aziende il senso di appartenenza ad un luogo si sgretola e dobbiamo agire nella distanza molto più spesso.

      Questo significa che laddove i legami fisici vengono meno la connessione necessaria a tenere insieme le persone nelle aziende si radica in qualcosa di più profondo. L’ appartenenza ad un’azienda oggi è fatta in sostanza da valori condivisi e dalla quotidiana soddisfazione di svolgere un’attività che appassiona davvero.

      L’evoluzione la fanno le persone e tenerle unite in un organismo, quale è di fatto l’azienda, oggi vuol dire mettere ognuna di loro nelle condizioni di svolgere le attività per cui sono più dotate e in cui sentono di poter esprimere sé stesse e il proprio potenziale.

      Oggi significa dare loro abbastanza autonomia per fare sì che svolgano progetti dall’inizio alla fine, in modo che li possano chiaramente vedere, ottenendo per essi il giusto riconoscimento.

      Si tratta di guardare all’azienda come ad un puzzle e vedere l’insieme guardando ai singoli pezzi

      Partiamo da uno sguardo profondo e attento verso il tessuto sociale che rende l’organizzazione viva.

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    • leadership che sa vedere

      La leadership che sa vedere quando ancora non si vede

      I contorni dell’orizzonte tra lavoro e Leadership agili

      Dove ci muoviamo?

      Partiamo da qui:

      NEL PIENO DEL LAVORO AGILE

      Abbiamo parlato di smart working, di remote working e di Hybrid working. Li abbiamo visti e li viviamo sulla pelle e oggi ci hanno condotto a sperimentare nuove modalità di lavoro, lontane da quelle a cui eravamo abituati, forse, più vicine a una nuova aria che si sente respirare fuori.

      Presto scopriremo perché.

      Di cosa stiamo parlando? Oggi il nuovo modello di lavoro viene definito “AGILE” e fa riferimento ad un approccio finalizzato ad una migliore efficienza nel raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione. Questo attraverso la combinazione di flessibilità, di autonomia e di collaborazione tra le persone; puntando sull’ottimizzazione di strumenti e tecnologie e garantendo gli ambienti più funzionali alle esigenze dei lavoratori.

      Il lavoro agile ha quindi l’obiettivo di incrementare la produttività aziendale, favorire la conciliazione dei tempi vita/lavoro e una maggiore sostenibilità ambientale.

      Quali sono gli ingredienti di questa ricetta?

      • Un lavoro scandito da obiettivi e con confini dai contorni sfocati.
      • Un’ evoluzione continua legata ai progressi tecnologici e all’accelerazione impressa dalla pandemia
      • Lo sviluppo di maggiori capacità e di più alte responsabilità in ciascun lavoratore
      • Un contesto instabile, in cambiamento continuo, dove si sente però l’esigenza di investire per preservare il domani e renderlo accessibile e fiorente anche per chi deve ancora venire.

      Qual è dunque la domanda corretta per intuire il futuro dei modelli organizzativi?

      Sono due gli interrogativi a cui vorremmo ora dare spazio:

      1. Cosa vedono oggi i leader?
      2. Parliamo di leader agile o di sistemi di leadership agili?

      Alcuni segnali ci indicano un’importante transizione.

      VIANDANTI SU UN MARE DI NEBBIA

      Disegniamo i contorni dell’ambiente in cui si muove il leader agile.

      Se ripercorriamo la vita di tutti i giorni gli elementi che distinguono i contesti aziendali sono ormai nelle nostre scarpe. Uno di questi è l’accelerazione.

      Ci muoviamo su una strada sterrata e ci muoviamo veloci, talmente veloci che è difficile vedere e talvolta non ci arriva che una scia del perpetuo movimento. Proprio come se fossimo a bordo di un’auto da corsa sulle montagne.

      Quando non vediamo, il nostro cervello tende a semplificare e suddivide in parti. Si tratta di un meccanismo che ci aiuta ad analizzare gli elementi allo scopo di sciogliere i nodi. Stringiamo gli occhi, rendiamo più piccolo il campo e speriamo di vederci un po’ meglio.

      Cerchiamo di semplificare questa complessità, di aumentare il controllo con meccanismi sofisticati, proprio come quando qualcosa ci sta sfuggendo dalle mani e rafforziamo la presa per non farlo cadere.

      Vediamo poco perché il moto è veloce e l’emergenza ci mette nella posizione di inseguire piuttosto che di prefigurare.

      Nel panorama di oggi vediamo una distanza, tra ciò che abbiamo conosciuto finora (un modello organizzativo strutturato, scandito da orari e disegnato in gerarchia) e quello che vediamo germogliare fuori.

      Da una parte il controllo, dall’altra uno spazio sempre maggiore all’autonomia, all’autodeterminazione e all’espressione della propria soggettività.

      CHE COSA GERMOGLIA FUORI? HYBRID WORKING TRA CONFINE E ORIZZONTE

      È arrivato l’Hybrid working e prima è arrivata la pandemia. La nostra domanda è questa:

      L’ Hybrid working è stata una risposta alla pandemia oppure un segnale di un’evoluzione culturale, e di una società che sta ricercando altro?

      La pandemia ha probabilmente accelerato una richiesta culturale che da un po’ di tempo germogliava sotto il terreno.

      Cosa è successo?

      • Abbiamo imparato a coordinarci nella distanza, lavorando molte più ore di quanto la nostra attenzione potesse fare.
      • È cresciuta la responsabilità di molti verso gli obiettivi comuni
      • Le priorità sono diventate più chiare
      • Il lavoro è stato scandito da scopi precisi per ciascuno di noi

      Ma c’è di più per quanto riguarda la leadership

      Da anni le persone sono diventante progressivamente vere autrici, capaci di autodeterminarsi, di esprimersi e di scoprire la loro strada.

      Abbiamo raggiunto il più alto tasso di scolarizzazione e di istruzione, ma stiamo assistendo al fenomeno incredibile delle “grandi dimissioni”.

      Cosa succede? Forse le persone che oggi varcano le soglie dei contesti lavorativi lo fanno armati di sogni e di progetti. Hanno scopi più chiari.

      Una prova? Di recente 400000 persone sono licenziate dalla regione Lombardia per poter riacquistare degli spazi di maggiore espressione di sé, perché hanno deciso di fare altro che fosse maggiormente rappresentativo del proprio significato.

      La loro creatività, o meglio, la loro voglia di creare, è difficile da trattenere, perché creano continuamente: ognuno di noi pubblica la sua vita e il suo pensiero su canali ormai innumerevoli.

      Non siamo disposti a cedere in questo, abbiamo tutti bisogno di trovare un’organizzazione che ci permetta di realizzarli questi scopi e che li intrecci con i propri.

      Forse l’Hybrid working non è che il germoglio di radici meno giovani di quanto si possa pensare.

      Che cosa però ha portato di davvero nuovo?

      Ci siamo allontanati un po’ e talvolta abbiamo smesso tutti di vedere, perchè da casa tante cose non si vedono più.

      Per cominciare non si vede il luogo, non si vede lo spazio, né tutto ciò che lo spazio contiene. Quell’intensità umana di cui l’azienda è contenitore potrebbe disperdersi perché in ufficio molti non ci vanno più tanto, il gruppo non si alimenta più della condivisione di un ambiente comune ma ha bisogno di vivere di qualcos’altro

      Le esperienze vissute sono più significative se sono incarnate, se le viviamo in uno spazio che non è sospeso come quello che vediamo accanto al nostro specchio in webcam. Addirittura le neuroscienze ci raccontano che le codifichiamo in modo diverso, l’ippocampo non le raccoglie come le altre.

      Le emozioni sono meno intense, il senso di appartenenza ad una comunità è appeso ad un filo e piuttosto cambia I suoi connotati.

      È più difficile creare contaminazioni, di idee, di energie, di emozioni e di fiducia. Ci si può anche sentire soli.

      Allora come mai alcune aziende sono rimaste compatte? Perché molti continuano a sentire di voler aderire profondamente agli scopi propria organizzazione?

      Forse oggi le persone ricercano ragioni più profonde, più intense e significative, per investire la fiducia in un’organizzazione.

      L’appartenenza alle organizzazioni oggi si nutre di valori, obiettivi e scopi condivisi.

      Nell’hybrid working le aziende crescono ed evolvono se il purpose individuale e quello organizzativo coincidono per lo sviluppo di entrambe le parti e quindi camminano sulla stessa strada.

      Stiamo vivendo un cambiamento culturale, in cui la persona è al centro, così come lo è la sua espressione del sé e la sua voglia di concorrere alla realizzazione di qualcosa di rappresentativo del proprio significato.

      LEADERSHIP, SE LA NEBBIA SI DIRADA UN PO’

      Torniamo al nostro leader

      Cosa possiamo vedere se, una volta analizzati questi pezzi del puzzle li mettiamo insieme?

      Facciamo un riassunto degli elementi:

      1. Si vede poco, si agisce in fretta e ci si muove tanto: non è facile prefigurarsi il futuro
      2. Ci vediamo poco e non condividiamo lo spazio, cui forse sentiamo meno di appartenere
      3. Si è trasformato anche il significato stesso di sentirsi parte, non deriva più dall’appartenenza ad un luogo ma all’aderenza a scopi che siano comuni.
      4. Sogniamo tutti di disegnare progetti e di realizzare il nostro futuro mettendo in campo I nostri sogni
      5. Forse dobbiamo trovare un modo, per tenere insieme le persone che ora escono da quel “comodo contenitore” fatto di tanto controllo e di strade già tracciate e ben asfaltate

      Da leader, cosa facciamo?

      LEADER AGILE O LEADERSHIP AGILE?

      Che succede nell’organismo-azienda?

      Se ascoltiamo i segnali del terreno possiamo notare quanto i sistemi organizzativi prendano la chiara forma del corpo umano. C’è una rete fitta, di entità autorganizzate, più autonome, distribuite nell’organismo. Ogni cellula ha la capacità di ricevere e di inviare dei messaggi, di elaborarli e generare degli output in modo autonomo. Se dovessero essere centralizzate nel cervello pensante e cosciente tutte le informazioni prodotte da ogni cellula, il sistema in breve tempo andrebbe in tilt e non si dedicherebbe ad altro che alla sopravvivenza.

      Quindi, nel corpo, se ci pensiamo, l’autorità è distribuita perché ogni organo, molecola e cellula ha una propria autonomia e ha responsabilità da assolvere.

      Per uscire dalla metafora: tutti oggi, nelle organizzazioni, hanno una certa autonomia, hanno delle responsabilità, portano avanti alcuni compiti dall’inizio alla fine, anche senza che vi sia un continuo controllo esterno. È fisiologico e funzionale all’evoluzione.

      Allora il leader dove si colloca? Ce n’è veramente bisogno se ognuno è autonomo, responsabile, guidato da uno scopo chiaro?

      NOI ABBIAMO LA NOSTRA VERSIONE DI QUESTA STORIA

      Quello che pensiamo è che oggi la leadership funziona quando il concetto di ibridità viene affiancato in modo forte all’identità della persona e alla sua possibilità di aderire, per valori e per purpose ad un contesto organizzativo.

      Dove purpose individuale e collettivo si incontrano e si sposano, l’hybrid working va nella stessa direzione.

      Noi vogliamo parlare di leadership del futuro, una leadership sistemica, dove però, oggi, il leader c’è e serve, soprattutto in questo momento di confusione, ma non è il paradigma del controllo quello che funziona in questo grande cambiamento culturale

      Parliamo di una leadership intensamente umana, che metta al centro le persone e sappia valorizzarle.

      L’asse più presente oggi è quello della responsabilità. Si delinea con maggiore intensità all’aumentare dell’autonomia che le persone hanno, della corrispondenza tra ciò che scelgono di fare e le abilità che mettono in campo, ma soprattutto dalla coincidenza di strada che permette al purpose personale e aziendale di coesistere e trovarsi in viaggio insieme.

      Le persone vogliono scegliere di lavorare su quello che più piace loro, ma allo stesso tempo, se si trovano nel posto giusto, possono esprimere i loro doni ed interessi in un sistema più ampio a cui aderiscono. Proprio in virtù di un moto che parte dalla passione e da un interesse acceso poi le persone sono attive, autrici, credono in quello che fanno e lo portano avanti con successo.

      Una leadership intensamente umana sa cogliere la dimensione dell’anima delle persona, ma sa anche inserirla e annetterla a dimensioni più pratiche ed operative proprie del sistema.

      Una leadership ad alta intensità non identifica un leader che agisce unicamente nella ristretta prospettiva del suo ruolo, ma che piuttosto sa entrare nel sistema ed esserne parte in modo empatico, il suo agire è delimitato da una cornice liquida. Ascolta, facilita, sente l’emergere dei segnali più piccoli per adattare la realtà che vive. Lo fa insieme ai suoi collaboratori.

      I leader ci sono, sono coloro che riescono a immaginare e a guardare oltre la nebbia, a progettare, proiectare, proiettarsi insomma oltre gli ostacoli.

      Il cervello umano funziona se vede. Lo dicono le neuroscienze ma lo sappiamo da sempre. Il motivo per cui camminiamo in avanti è perché abbiamo nella mente una fotografia a colori dell’orizzonte e se la vediamo possiamo raggiungere la meta. I leader oggi hanno il compito di trasmetterla questa fotografia e di aiutare le persone nella scoperta di questo paesaggio.

      Immaginiamo la tessitura di un finissimo arazzo, pieno di disegni dettagliati e ricchi di colori. leader è colui che prende un filo, lo snoda, e lo indirizza verso la tela, di cui ha ben chiaro il disegno finale, per questo può collocarlo nel posto giusto ai fini di creare il progetto più bello. Da una parte ha visione della complessità, tiene e condivide le redini del senso, dall’altra accompagna, snoda, entra nel piccolo per creare il grande.

      Parliamo di una leadership partecipativa orientata all’ascolto, al supporto, allo sviluppo e al confronto, che possa coltivare le relazioni con i collaboratori in modo generativo, alimentandosi quotidianamente di feedback, considerando la relazione come il vero spazio di azione.

      La complessità oggi non si può sciogliere, ma cogliere. La complessità non è complicazione, piuttosto è interazione e scambio continuo.

      Ha tratti intensamente umani.

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    • Siamo aereoplanini di carta o siamo barche a vela

      La biologia del Cambiamento

      Facciamo un cambiamento! Ma come?

      Siamo tutti in viaggio e il movimento è in ogni cellula del nostro essere.

      Oggi però, per muoverci insieme con gli altri, il cambiamento lo presentiamo e gli diamo una forma.

      Nei nostri coaching raccontiamo che il cambiamento ha i colori dell’empatia e sono colori che ogni leader dovrebbe avere dentro di sé.

      Siamo areoplanini di carta, in balia del vento o, siamo barche a vela e il vento è amico della rotta che vogliamo tracciare?

      Una variabile che fa la differenza è quanto siamo pronti a cogliere la dimensione dell’altro. Senza l’altro non c’è alcun cambiamento.

      Innanzitutto c’è da notare questo:

      Il cambiamento è anche una questione di chimica e biologia.

      Tanto dipende dalla chimica delle parole.

      Le parole per aprire la biologia del cambiamento

      Come pensiamo che le persone in viaggio con noi siano aperte al cambiamento se il messaggio che veicoliamo ha un suono duro, è chiuso, suona come una dichiarazione di guerra?

      Nel presentare il nostro progetto di cambiamento dobbiamo utilizzare parole che siano aperte per aprire gli altri alla possibilità. Devono essere comprensibili ma soprattutto scegliamo parole nuove, perché il cambiamento è anche novità e possiamo accoglierla questa prospettiva.

      Ma che cosa ci serve per comunicare parole

      ·       Aperte

      ·       Comprensibili

      ·       Nuove

      Ci serve accogliere, ci serve comprendere prima il bisogno che hanno gli altri di capire.

      Possiamo farlo trasferendolo in 3 domande da porci prima di ogni viaggio:

      ·       Perché io?

      ·       Perché ora?

      ·       Perché noi?

      Di cosa sono fatte queste domande per innescare la biologia del cambiamento?

      ·       Quali sono i benefici reali e attesi che vediamo lungo il percorso?

      ·       Che tipo di risorse abbiamo e quali dovremmo avere? Abbiamo tutto l’occorrente?

      ·       Quali rischi vediamo, reali o presunti, sul cammino? Quali paure, quali insicurezze?

      La nostra prospettiva di cambiamento si integra alla dimensione del noi. Ecco perché è importante che sia un viaggio di gruppo, cui tutti sentano di poter partecipare.

      Come si appropriano le persone del cambiamento che indichiamo loro?

      Lo fanno se i progetti che portiamo non sono chiusi ma aperti, o meglio, da completare e co-costruire.

      A volte sottovalutiamo il potere di un progetto incompleto perché ci alletta di più l’idea di arrivare agli altri con la sicurezza dei contorni tracciati già a penna. Eppure una linea solo tratteggiata da spazio, per essere disegnata a più mani.

      Possiamo riempirli insieme i tratti e farlo con delle domande. Perché le domande, spesso, contano molto più delle risposte.

      ·       Che nome diamo al cambiamento? Perché siamo sempre scossi dal vento ma ora c’è qualcosa di nuovo

      ·       Dov’è la differenza che fa la differenza?

      ·       Cosa tiene spinto il freno? Quanto è grande il sassolino sotto l’acceleratore?

      ·       Di cosa è fatto questo cambiamento? Che forma ha?

      ·       Quali sono gli elementi di discontinuità con il passato?

      A volte le risposte vengono meglio disegnando e possiamo farlo insieme, come un popolo in cammino.

       

      Si dice che la mappa ha un grande potere nel darci chiarezza, perché i ragionamenti e le rappresentazioni non le collochiamo mai su una linea retta. Allora perché non disegnare un’isola immaginaria dove mettere i punti del cambiamento?

      Ricordiamoci anche il potere di pensare per “come se”.

      Ma cosa significa quando parliamo di biologia del cambiamento?

      Abbiamo raccolto tanti vissuti, tante esperienze, tante testimonianze. Sappiamo che ogni trasformazione ci tocca, talvolta in modo delicato, talvolta in modo decisamente più incisivo e ha toni diversi che spaziano da varie sfumature di grigio, ai rossi più accesi, ai blu profondi. Possiamo dipingerli di verde, vederli con speranza, o di giallo, un giallo intenso, come una lampadina accesa, come l’energia.

      Il cambiamento è contenitore di emozioni, di fragilità e di vulnerabilità, ma molti ancora vedono l’azienda come un luogo dove le emozioni non possono entrare.

      Un presupposto in cui crediamo è che tutto ciò che non viene nominato non possa essere risolto. Tutto ciò che non comunichiamo non trova lo spazio per trasformarsi, tanto che comunicazione e trasformazione possono essere quasi sinonimi.

      I “come se”, le metafore, ci permettono di nominare guardandoci da fuori, lasciando il giusto spazio da noi per vedere con più lucidità.

      Ora possiamo avviare il cambiamento, ma ricordiamoci talvolta di tornare al campo base.

      Abbiamo bisogno di camminare avanti così come di fare tappe lungo il sentiero:

      Possiamo chiederci:

      ·       Dove siamo?

      ·       Come stiamo?

      ·       Dobbiamo ritararci?

      ·       Celebriamo i nostri successi, allarghiamo l’orizzonte e arriviamo al cambiamento.

      L’esperienza stessa del movimento ci porta a ritararci, sintonizzarci, andare avanti ancora.

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    • Digital & Human Transformation

      Arte e trasformazione umana nello specchio dell’era digitale

      Let it shine 

      Conosci Jeff Koons?

      Si tratta di un artista contemporaneo famoso in tutto il mondo. Qualche mese fa la città di Firenze ha ospitato nella meravigliosa cornice di Palazzo Strozzi la sua più grande mostra in Italia, per coinvolgere tutti i sensi e celebrare la lucentezza.

      Il titolo è “Shine”.

      Quando camminiamo tra le sue opere veniamo fisicamente attratti verso la luce e sentiamo subito l’energia che sprigiona.

      L’arte qui si pregna di intensità, diventa un mezzo di connessione profonda; viene vissuta come esperienza sensoriale e viscerale, tanto che lo spettatore è coinvolto profondamente nell’esperienza artistica.

      Il messaggio che Jeff Koons ci comunica è la centralità, l’esaltazione della persona come partecipe dell’opera d’arte e come parte stessa dell’esperienza artistica.

      L’idea di fondo è che “Solo elevando noi stessi possiamo aprirci al resto del mondo, vivendo liberamente e sperimentando tutto ciò che ci circonda”

      I fil rouge delle sue opere sono: la lucentezza, il bagliore che sprigionano gli oggetti, ma allo stesso tempo il riconoscimento dell’ambiguità: il peso dell’acciaio inossidabile che richiama la leggerezza di un palloncino, la brillantezza di ciò che ci sembra prezioso e la semplicità di un materiale comune, utilizzato negli stabilimenti industriali.

      La mostra di Jeff Koons fa riferimento al nostro modo di percepire e di comprendere la realtà. 

      Le superfici luminose elevano gli stati d’animo, ci donano euforia ed eccitazione e producono esperienze intensificate della realtà.

      Un altro filo rosso delle sue opere è questo:

      Ogni visitatore viene posto davanti ad uno specchio in cui può riflettersi.

       

      Diventa centro dell’ambiente che circonda; può comprendere davvero qual è il suo potenziale e cosa può diventare. È questo il segreto celato nella trasformazione che la rende una vera e propria evoluzione.

      Ogni scultura di Jeff Koons afferma la presenza dello spettatore, la sua esistenza, e gli narra che è parte di un dialogo più ampio.

      L’arte vive grazie alla relazione con lo spettatore. Quando lo spettatore esce dalla sala, anche l’arte cessa di essere.

      Così Koons scrive per descrivere l’esperienza che vuole costruire. Noi partecipiamo attivamente al progetto. Siamo parte integrante dell’opera, inglobati nello spettacolo.

      L’opera assume significati e connotazioni differenti a seconda della persona che vi si specchia. Ha differenti livelli di lettura e ognuno di noi può leggervi diversi significati.

      Certo è che sentiamo sulla pelle la partecipazione alla fruizione artistica, mentre vediamo il nostro riflesso insieme agli oggetti.

      Ma al contempo il riflesso è sfuggente, mutevole ai cambiamenti di luce, ai nostri movimenti.

      Nel cambiamento, nella mutevolezza e nell’ambiguità noi però siamo lì, esperiamo “uno stato elevato”, un senso euforico di affermazione.

      Ci proiettiamo in un tempo diverso, nel qui ed ora, ma al contempo anche oltre. Siamo lì ma passato e presente si fondono per condurre il nostro sguardo verso il futuro.

      La lucentezza e il nostro riflesso nel cambiamento 

      All’interno del contesto attuale, caratterizzato da trasformazioni costanti e prorompenti abbiamo già osservato insieme e non manchiamo mai di notare le continue sfide che ci si palesano davanti.

      Un contesto che muta, continuamente, e che si manifesta nella sua mutevolezza e nella sua ambiguità: essere presenti sempre ed essere distanti, una nuova fisicità che però non ha corpo, un immenso quantitativo di nuovi dati sempre meno tangibili, un nuovo modello di partecipazione, alla vita privata e a quella aziendale.

      Se guardiamo l’opera di Koons con altri occhi potremmo dire che in questa mutevolezza, che ci confonde, ci abbaglia e ci illumina con colori accesi e immagini sempre diverse, emerge da più parti che il focus principale della trasformazione è la persona. 

      Per questo noi non possiamo fare che un ragionamento unico e parlare di digital e human transformation, considerandoli due elementi che viaggiano di pari passo.

      Un report del World Economic Forum “The Future of Jobs and Skills” evidenzia come la digitalizzazione, la robotica, l’intelligenza artificiale e le nuove tecnologie digitali si stiano diffondendo ad una velocità incredibile, generando cambiamenti epocali nel mercato del lavoro.

      Questa trasformazione porta al rafforzamento di una mentalità «disrupt, innovate and accelerate» e di una cultura sempre più digitale e collaborativa.

      Le persone però restano l’asset più importante per le imprese ed è il loro riflesso nello specchio che porta il sistema ad avanzare. 

      La digital transformation è un nuovo paradigma che determina cambiamenti radicali all’interno delle dinamiche aziendali e del modo in cui le persone collaborano, si esprimono, entrano in relazione.

      Al centro di questo paradigma, tuttavia, il fattore più importante resta comunque quello umano, ne consegue sempre che la tecnologia, i nuovi strumenti, i nuovi modelli, non saranno mai i fini a cui tendere, piuttosto mezzi efficaci.

      Abbiamo davanti una grande opportunità per riflettere su chi siamo, dove vogliamo andare e chi vogliamo essere.  

      La nostra capacità di vivere il cambiamento, esperirlo in modo attivo, coglierne la bellezza e osservarne le potenzialità, accogliendone le sfide è il primo passo verso l’evoluzione di ogni sistema organizzativo. 

      “Penso che quando esci dalla sala, ne esca anche l’arte. L’arte riguarda le tue possibilità come essere umano.  Riguarda la tua eccitazione, il tuo potenziale e ciò che puoi diventare. Afferma la tua esistenza.” 

      Jeff Koons

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    • Diversity & Inclusion

      Non di più, non di meno: parità di genere

      La parità di genere

      Sapevi che uno dei principali obiettivi per le aziende e le organizzazioni riguarda proprio l’aumento della presenza delle donne nel mondo del lavoro?

      Oggigiorno ci ritroviamo a vivere una società che viaggia veloce. Ci interfacciamo a differenti prospettive, coltivando l’inclusione e accedendo alla diversità come fertilizzante per il mondo.

      Nel panorama organizzativo, la compresenza di diversi generi è diventata fonte di arricchimento ad ogni livello aziendale e per ogni sua funzione. Ormai avere più “donne a bordo” dell’azienda è un valore dimostrato da più ricerche come prezioso, strategico e straordinariamente efficace.

      Avere una maggiore occupazione del femminile non è solo una questione di uguaglianza tra i sessi, è soprattutto una virtù che incide molto positivamente sul sistema produttivo e sul tessuto economico della nazione.

      A livello aziendale la presenza di donne al potere fa aumentare significativamente i profitti e a testimoniarlo è il Fondo Monetario internazionale.

      Le donne al potere: uno specchietto per le allodole

      La figura femminile rispetto al passato sembrerebbe ritrovarsi ad occupare posizioni molto più importanti. La sua presenza all’interno del Board è sicuramente aumentata, ma si può parlare di parità di genere?

      La presenza femminile rimane sempre circoscritta a posizioni meno dirigenziali di quelle occupate dagli uomini.

      Alcuni esperti ci parlano del percorso delle donne al potere utilizzando la metafora di una “TUBATURA FORATA”.

      Questa immagine spiega il fenomeno che evidenzia un numero di donne occupanti posizioni manageriali che va a ridursi notevolmente man a mano che si sale di gerarchia.

      Le posizioni apicali e il consiglio di direzione hanno una prevalenza decisamente più al maschile.

      Ma perché? Come si collocano le quote rosa in questa cornice?

      Un articolo sul diversity management di Irene Brusini riporta alcune importanti riflessioni tratte dalla tesi: “Rethinking political representation. A new measurement of gender equality in political representation in the EU” elaborata dall’ISTAT.

      Viene sottolineata un’interessante verità sulla parità di genere: oggi la rappresentanza di genere nella classe dirigente viene equiparata direttamente allo strumento che si utilizza per la sua misurazione: un numero; precisamente il numero di donne che ricoprono un ruolo di potere.

      Questo indice viene utilizzato per visualizzare il concetto stesso di pari rappresentanza nel pensiero comune.

      Eppure l’utilizzo di un numero pecca di unidimensionalità e influisce sulla nostra percezione.

      Il metodo quantitativo dagli anni 80 viene privilegiato perché favorisce gli studi sociali e le pratiche politiche, eppure ha grosse limitazioni tangibili:

      1. Un’eccessiva semplificazione può portare ad un’analisi superficiale di fenomeni complessi.
      2. Contrariamente alla narrazione comune che considera i metodi quantitativi come strumenti privi di bias, questi ultimi sono accompagnati da importanti implicazioni politiche. E lo vedremo tra poco.
      3.  Gli enti tendono a modulare strategicamente il proprio comportamento con l’obiettivo di ottenere punteggi più alti anziché concentrarsi sull’affrontare efficacemente le disparità e scegliere la persona veramente più adatta per un ruolo.

      Comprendere il fenomeno

      A volte questi indicatori portano a risposte “politiche” inadeguate e ad una mancanza di comprensione vera e profonda di questo fenomeno.

      Manca un’analisi più sostanziale, che non oscuri l’interrelazione tra sistemi di oppressione e un’osservazione più olistica del well-being.

      Spesso accade che l’equilibrio che si cerca di trovare tra i due generi, si perde durante il processo di selezione, in cui ci si ritrova ad assumere donne soltanto per raggiungere la soglia minima di quote rose imposte dal governo. Ecco che si torna sul dato qualitativo.

      Tale strumento, creato per far sì che entrambi i generi possano essere liberi di condurre una vita piena e soddisfacente al di là del lavoro, è stato utilizzato in maniera erronea: sempre di più le aziende hanno proteso alla quantità rispetto alla qualità.

      Questo atteggiamento, ha condotto, ovviamente, a confermare i pregiudizi già radicati nei confronti delle donne, che si ritrovano ad essere assunte per impieghi che magari non corrispondono alle loro competenze, ma soddisfano i requisiti per fare numero.

      L’ha detto anche Mario Draghi, in riferimento all’assunzione di donne per le cariche politiche: “Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi. Altrimenti si incorre nel rischio che la scelta di delle candidate venga studiata a tavolino.”

      Sai perché accade ciò sulla parità di genere?

      Nel mondo organizzativo, permane ancora l’idea fuorviante che le donne siano meno focalizzate sul profitto e più sui valori sociali dell’attività aziendale.

       Come può, un aspetto così fondamentale, essere valutato come importante ma non essenziale?

      Molti studi evidenziano come la diversità di genere e dei valori che ogni individuo apporta all’interno delle aziende sia una fonte inesauribile di energia.

      In che modo la diversità/parità di genere può arricchire l’azienda?

      Abbiamo visto che un’alta presenza di donne al livello dirigenziale permette di generare maggior reddito operativo. Oltre questo c’è una correlazione positiva tra la presenza di dirigenti donne e l’incentivazione dei valori aziendali, la credenza e l’adesione ad una mission e vision aziendale, anche nel lungo periodo.

      Nell’analisi sulla parità di genere risulta oltremodo evidente poi il contributo umano e relazionale che può conferire a una realtà imprenditoriale una maggiore prevalenza di donne.

       Capacità di ascolto e di comunicazione, abilità di mediazione, accuratezza e scrupolosità, trasmissione di senso e di significato, cooperazione e gestione delle relazioni sono tutte caratteristiche preziose che appartengono di più per natura al genere femminile e che sono molto richieste in un sistema produttivo 4.0 di oggi.

      Anche questa volta vi rimandiamo a una riflessione profonda, a un’apertura di sguardo e a una presa di responsabilità.

      Per andare oltre i numeri; per una cura, un’attenzione, una sensibilizzazione più vera.

      Perché non c’è nulla di più bello che fare coincidere decisioni di valore e risultati di incredibile successo.

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    • PENSARE AL NOI

      Benessere e inclusione: pensare al noi è il sentire necessario per un mondo sostenibile

      Nel contesto geo-politico e socio-culturale odierno assistiamo a problematiche sempre più evidenti e a crisi globali di estrema drammaticità, dalle guerre ancora in atto, al collasso climatico, all’evidenziazione delle disuguaglianze, alla discriminazione razziale.

      Situazioni che impediscono lo sviluppo di benessere e inclusione.

      Per sviluppare benessere e inclusione dobbiamo cambiare pelle, cambiare modo di guardare, partecipare attivamente alla rinascita del nostro paese, e l’unico modo per farlo è pensare al “NOI”.

      Secondo il sociologo ed economista inglese John Elkington lo sviluppo sostenibile è prodotto di P (People, Project, Planet).

      Però è solo partendo dalle persone e dalle loro potenzialità che possiamo impattare le altre dimensioni. Siamo noi il motore dell’innovazione, con le nostre passioni, la nostra energia e i nostri ideali.

      Uno sviluppo sostenibile deve coinvolgere tutta la società intesa come ecosistema. Nelle aziende deve toccare la cultura organizzativa in senso esteso e tutto il sistema di relazioni tra le persone.

      Non è solo importante, è necessario che tutti possano comprendere il cambiamento da attuare e possano assumere un ruolo attivo nel guidarlo.

      Non possiamo farcela da soli, ma se c’è la collaborazione e la volontà di tutta la rete sociale possiamo superare le avversità. Per questo è necessario avere una missione che sia sovra- individuale, in modo da costruire una società migliore e più sostenibile.

      SERVE UN NOI PER SCORGERE L’ORIZZONTE FUTURO

      La situazione drammatica di questo ultimo biennio ci mostra chiaramente la portata della complessità cui oggi assistiamo e l’equilibrio precario in cui ci troviamo.

      Eppure noi vogliamo conoscere e anticipare il nostro futuro e vorremmo poter prevedere ciò che accadrà per calibrare il nostro comportamento nel miglior modo possibile.

      In questo modo possiamo creare progettualità di benessere e inclusione.

      In francese sostenibilità si traduce con il termine “durabilitè”, proprio perché si fa riferimento al compimento di azioni verso il bene comune che siano durevoli nel tempo, che sappiano adattarsi nel modo migliore all’orizzonte futuro.

      Fare previsioni però è complesso. Ci scontriamo con una moltitudine di informazioni il cui sfondo è un clima di ambiguità e di incertezza. Per questo le strategie aziendali sono spesso a breve termine e difficilmente durature.

      LE AZIONI PER UN DOMANI MIGLIORE

      Oggi ancora di più dobbiamo fare in modo che le comunità possano scorgere i loro futuri possibili e raggiungere il domani migliore, inclusivo, pacifico, dove la dignità di una persona non può essere presente a scapito di quella di un’altra.

      Riflettere sul futuro INSIEME è estremamente prezioso.

      Ciò che si realizza effettivamente è profondamente influenzato dagli orizzonti di attesa che coltiviamo. Se per esempio ci aspettiamo che qualcosa andrà male, è probabile che questo accada.

      Avere un NOI è un modo per evitare che queste credenze si auto-avverino, perché le aspettative possono essere integrate e negoziate.

      Se si vogliono produrre azioni che siano durevoli nel tempo non possiamo pensare al futuro guardandolo come un orizzonte lontano, l’oggi deve essere sostenibile.

      Questo significa che la riflessione va estesa a soggetti diversi, di età diverse, poiché possono scorgere orizzonti temporali più o meno vicini.

      Ciò che per una persona più anziana o più adulta appare un futuro lontano o irraggiungibile, per un giovane rappresenta un presente vicino, che condizionerà certamente la sua attuale esistenza, ecco perché acquisisce concretezza e risulta più tangibile.

      La compresenza di più generazioni nel ragionamento sui cambiamenti futuri permette di concretizzare il progetto, estendendo le sue implicazioni.

      Inoltre la scienza stessa ci dimostra che valori inclusivi quali empatia e gentilezza generano un impatto straordinario sulla longevità dei sistemi e sono qualità preziose che consentono ogni giorno di lavorare con successo sui delicati equilibri del mondo esterno.

      Sono un motore per l’accensione di pratiche virtuose che legano a doppio filo il benessere del singolo, quello della collettività e quello del pianeta intero.

      DALL’ “EGOSISTEMA” ALL’ECOSISTEMA

      Molti studiosi oggi ci parlano di sostenibilità e la considerano intrinsecamente legata ad un’autoriflessione sistemica, sui nostri fondamenti culturali e cognitivi. Per sviluppare una teoria sullo sviluppo sostenibile dobbiamo necessariamente focalizzarci sul concetto di società sostenibile in cui il livello di attivazione individuale viene coniugata al livello dell’azione collettiva.

      Facciamo un esempio:

      In un famosissimo Ted Talk intitolato Want to help someone? Shut up and listen! Ernesto Sirolli, economista e politologo italiano, racconta una storia interessante: parla di quando si è recato in Africa tra il 1971 e il 1977, per progetti di collaborazione tecnica al fine di migliorare le condizioni di povertà locale.

      Ogni singolo progetto è fallito.

      Parla della sua prima esperienza, che aveva come scopo quello di insegnare alla popolazione Zambese come coltivare il cibo. Diversi italiani sono arrivati in Zambia per piantare semi in una valle magnifica, vicino ad un fiume, e hanno fatto crescere pomodori e zucchine. Tutto procedeva meravigliosamente e ci si stupiva del fatto che la comunità locale non lo avesse mai fatto prima. Purtroppo una notte 200 ippopotami sono usciti dal fiume, hanno mangiato tutti gli ortaggi e distrutto le coltivazioni.

      Quando gli italiani, sconvolti dal fenomeno, hanno chiesto al popolo africano perché non gli avesse illustrato il problema loro hanno risposto: “perché nessuno ce l’ha chiesto”. Semplicemente è stato implementato un intervento, senza chiedere a chi doveva usufruirne, senza ascoltare e senza alcuna collaborazione.

      Cosa sarebbe successo invece se anche gli Zambesi avessero potuto sedersi al tavolo della discussione?

      In ottica sistemica è fondamentale pensare l’azienda come estremamente legata la concetto di “relazione”, perché si tratta di un sistema dinamico di interazioni, senza le quali è impossibile finalizzare cambiamenti e trasformazioni durevoli.

      Pensiamo questo:
      la parola “economia” deriva dal greco “oikovouia” ed è una composizione di due termini oikos, ovvero dimora, e vouia, amministrazione.

      “Etica” invece, dal greco “ethika” ha come radice “ethos”, che si traduce come “il posto in cui vivere”.

      Infine ecologia significa “studio della casa” perché è composta sempre dal termine oikos e dalla parola “logos”.

      Ecco che anche la fonetica ci suggerisce che non possiamo parlare di economia senza pensare all’etica e all’ecosistema.

      Per il benessere e l’inclusione la radice è comune.

      SIAMO NATI COSÌ, GUARDANDO L’ALTRO PER SCOPRIRE NOI STESSI

      La radice della sostenibilità, la complessità dell’ecosistema, si fondano sull’evidenza che non si può che ragionare pensando a un ”Noi” e scorgendo la fitta rete di relazioni di cui è pregnata la nostra società, in senso esteso.

      La stessa psicologia dello sviluppo umano ci insegna che noi concepiamo noi stessi e distinguiamo la realtà dalla fantasia solo nel momento in cui ci vediamo riconosciuti dall’altro e vediamo che l’altro vede quello che percepiamo anche noi. L’altro quando siamo bambini è come uno specchio, attraverso il quale possiamo cogliere le caratteristiche che ci contraddistinguono.

      È la relazione che ci permette di sviluppare il nostro sè, di conoscere il mondo e di espanderci.

      Prima dell’incontro con l’altro non siamo che un seme, con l’altro germogliamo, possiamo fiorire e aprirci al mondo.

      La vita stessa ci chiede di “essere con”, scoprendo chi siamo e mettendo la nostra peculiarità individuale in rete.

      LA SOCIETÀ SOSTENIBILE ESISTE, RIVOLGIAMO SU DI ESSA LO SGUARDO

      Se analizziamo oggi la nostra società possiamo scorgere chiaramente che stiamo andando già in questa direzione, verso il benessere e l’inclusione. Ognuno di noi vuole contribuire, vuole esprimere la propria opinione e vuole co-creare il futuro.

      I progressi della digitalizzazione hanno contribuito a fornire a tutti la possibilità di dire la propria, di condividere e di raccontarsi, di partecipare attivamente al dibattito sociale.

      Ancora, il nuovo scenario dello smart working, è stato un ulteriore catalizzatore dell’autonomia e della responsabilità di ogni lavoratore, dando il La ad un’organizzazione più flessibile, aperta ed orizzontale.

      Gli studi sull’invecchiamento e sul “Long Life Learning” hanno poi recentemente messo in luce che anche le condizioni fisiche e mentali degli anziani migliorano notevolmente nel momento in cui vengono messi in condizioni di contribuire alla vita pubblica e trovano un’attività virtuosa in cui poter confluire il proprio tempo.

      Infine i clienti dei servizi che la società stessa fornisce hanno ora un ruolo più centrale che mai e compiono scelte fortemente influenzate dall’etica del business, tanto che si parla di “voto con il portafoglio”.

      OLTRE IL FATTURATO

      Secondo le ultime indagini condotte da Accenture su un campione di oltre 30 000 persone, più del 60% dei clienti chiede alle aziende di porre all’attenzione le questioni ambientali ed etiche.

      Le aziende non sono chiamate solo a generare profitto, creare occupazioni e produrre beni, ma è fondamentale che si impegnino davvero per il benessere e l’inclusione comune.

      Questo significa sapersi calare nei panni di tutti gli stakeholders prima di prendere decisioni,

      Significa generare azioni dall’impatto positivo per tutta la comunità e promuovere un ambiente aperto, dove tutte le persone possano mettersi in gioco e far sentire la propria voce.

      Si tratta di ripensare ad un modello economico che metta al centro il valore delle relazioni sociali e consideri i beni “relazionali” in prima battuta, perché l’economia stessa è una “immagine della gente” e di ciò che vive ogni giorno. Occorre mettere al centro del mercato le persone, affinché ci sia reciprocità, senso civico, felicità e gratuità.

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    • LEADERSHIP & NEUROSCIENZAE

      L’organizzazione prospera grazie al feedback bidirezionale e qualitativo: la risposta delle Neuroscienze

      Il leader aperto al dialogo e al confronto è più efficace: lo dicono le Neuroscienze

      Una recente ricerca neuroscientifica condotta da Michela Balconi e colleghi ci dimostra che molto spesso, nel contesto lavorativo, quando un capo esprime una valutazione verso un dipendente a carattere qualitativo, e quindi a parole, ottiene più benefici rispetto a quelli che ricaverebbe con un rating numerico.

      L’effetto si amplifica se si genera uno scambio tale per cui entrambe le parti possono condividere il proprio punto di vista.

      Quindi non è solo il capo a dare un feedback ai dipendenti, ma lo scambio è bidirezionale, ovvero, questi ultimi hanno la possibilità di esprimere a loro volta le proprie convinzioni, le proprie emozioni e i propri vissuti.

      È stato scoperto che attivare un dialogo generativo durante un momento di feedback e di valutazione è estremamente benefico, sia per le persone che vengono “valutate”, sia per il leader che le valuta, sia, infine, per l’organizzazione in senso esteso.

      Forse per il futuro lo stesso termine “valutazione” potrebbe essere sostituito da quello di feedback, o ancora meglio, da un confronto, dove entrambe le parti possono apportare un contributo significativo.

      Predisporre un ambiente più aperto e orizzontale può permetterci di allargare il nostro sapere, di scoprire nuovi modi di agire e di guardare.

      LA COMUNICAZIONE APERTA NUTRE L’ORGANIZZAZIONE

      Secondo Ashley Hardin, ricercatrice e docente all’Università di Washington, le interazioni diadiche sul posto di lavoro sono «gli elementi costitutivi delle organizzazioni e il tessuto della loro vita» (Hardin, 2018).

      Gli scambi con l’altro favoriscono il cambiamento di un comportamento, contribuiscono alla formazione dei propri valori.

      Permettono di integrare, con la negoziazione, le proprie differenze favorendo l’empowerment personale.

      La comunicazione è uno strumento di monitoraggio, di incentivazione e di strategia ma si lega anche alla scoperta e all’elaborazione di significati; alla chiarificazione e al processo decisionale.

      Le parole possono fare la differenza nel determinare il benessere dei lavoratori, la loro motivazione ed il loro rendimento. Anche qui per noi è cruciale mettere le persone al centro.

      Lo scambio tra il “capo” e i suoi dipendenti ha un ruolo decisivo proprio in virtù dell’influenza che il leader esercita in quanto guida.

      Diverse ricerche dimostrano che i dipendenti di un’azienda «rispecchiano i loro leader; letteralmente», e lo fanno attraverso il funzionamento dei neuroni specchio, coinvolti nell’imitazione e nella sintonizzazione.

      COME PUO LA DIREZIONE DI UN’AZIENDA CONTRIBUIRE AD ALIMENTARE QUESTO CIRCUITO VIRTUOSO?

      La leadership in campo organizzativo è un processo poliedrico articolato in un ecosistema complesso.

      Il leader deve continuamente prendere decisioni e gestire situazioni nuove in evoluzione, ancora di più oggi, dove il lavoro richiede una sempre maggiore quantità di imprevedibilità e di rischio.

      L’adozione di uno stile di leadership cooperativo potrebbe essere la risposta più efficace e funzionale a gestire la complessità di relazioni, emozioni e comportamenti.

      Nello scorso articolo abbiamo presentato il personaggio di Filippo Brunelleschi quale leader brillante e capace, non solo per la sua grande abilità di vedere oltre e scorgere la complessità e l’interezza di un progetto, ma soprattutto perché raggiunse i suoi obiettivi “negoziando” la sua visione con le persone che potevano contribuire a realizzarla.

      Il suo successo si deve anche ad una grande disponibilità al confronto, poiché coglieva nei contributi degli altri la possibilità di apprendere.

      Oggi le ricerche dimostrano anche scientificamente che tutti i capi di un’azienda dovrebbero avere le stesse virtù.

      Lo stesso concetto di “valutazione” potrebbe essere sostituito da quello di feedback, o ancora meglio, da un confronto, dove entrambe le parti possono apportare un contributo.

      NON PIU’ IL RATING MA IL FEEDBACK BIDIREZIONALE ED ESPRESSO A PAROLE: LO DICONO LE NEUROSCIENZE

      Una ricerca scientifica condotta da Balconi e colleghi nel 2019 osserva come molto spesso, nel contesto lavorativo, una valutazione espressa a parole, sia significativamente migliore di un rating numerico.

      L’effetto poi è ancora maggiore se lo scambio comunicativo non è unidirezionale; e quindi è solo il capo a dare un feedback ai dipendenti, ma bidirezionale, ovvero, questi ultimi hanno la possibilità di esprimere a loro volta le proprie convinzioni, le proprie emozioni e il proprio punto di vista.

      Per dimostrarlo gli autori hanno utilizzato il neuro-management.

      Che cos’è? E’ una forma applicata di neuroscienza sociale volta ad osservare i comportamenti interpersonali che si verificano all’interno dei contesti organizzativi. E’ particolarmente utile per indagare anche i meccanismi inconsci e inconsapevoli che sottendono il nostro comportamento.

      QUALI MECCANISMI NEURO-FISIOLOGICI SI ATTIVANO NELLA PERSONA CHE VIENE VALUTATA O RICEVE UN FEEDBACK DAL PROPRIO CAPO?

      Diversi studi passati hanno evidenziato che solo il 40% delle volte i dipendenti di un’azienda migliorano a seguito delle valutazioni e dei feedback dei propri capi, anzi è stato riscontrato anche un alto rischio di peggioramento (38 %).

      Sembra che un fattore discriminante sia proprio l’utilizzo di una valutazione di tipo verbale e narrativo piuttosto che una basata sul rating numerico. Assegnare votazioni numeriche produce ansia, paura, emozioni negative ed evitamento.

      Diventa evidente che un’atmosfera lavorativa basata sull’ empatia, sull’ ascolto reciproco e su una solida comunicazione, aperta e orizzontale, può assumere una funzione regolatrice all’interno delle dinamiche interpersonali organizzative.

      Per dimostrarlo sono state condotte negli ultimi anni diverse ricerche basate su questionari e test auto-valutativi, che presupponevano però una consapevolezza forte di sé e della propria relazione con l’altro.

      LA RISPOSTA DELLE NEUROSCIENZE

      Le neuroscienze forniscono risposte ancora più precise. Osservano meccanismi sia controllati che automatici o inconsci, e ci permettono di vedere l’organizzazione con occhi nuovi.

      Balconi, Venturella e collaboratori, nel loro esperimento del 2019, hanno chiesto a 10 dirigenti e a 10 dipendenti di simulare un colloquio in coppia, dove erano tenuti a produrre una valutazione dell’efficacia delle prestazioni lavorative del proprio compagno.

      In alcuni casi, solo al dirigente era richiesto di valutare le prestazioni del dipendente. Talvolta, il dipendente poteva esprimere la propria opinione sul suo capo. In questo modo, sono stati osservati sia gli effetti relativi al ruolo, sia la differenza tra un feedback unidirezionale e uno reciproco.

      Infine hanno confrontato due condizioni distinte, una con rating numerico e l’altra con una valutazione qualitativa delle prestazioni.

      Durante i colloqui ad ogni partecipante sono state registrate l’attività cardiaca e quella elettrica della cute; se l’aumento della prima infatti tende a rilevare situazioni avverse e preoccupanti, l’incremento della seconda è più spesso associata all’attenzione emotiva, all’ entusiasmo o al piacere.

      Emerge che, mentre la valutazione quantitativa può provocare paura e generare emozioni negative o meccanismi di evitamento, un feedback qualitativo e discorsivo è più efficiente, utile, e viene ascoltato con maggiore attenzione, soprattutto se vi è la possibilità di contraccambiare.

      Ecco perché è quest’ultima condizione quella migliore; in grado di fornire maggiore benessere e soddisfazione, non solo nel dipendente/collaboratore ma anche nel leader

      È quindi fondamentale lo scambio di feedback qualitativi e bidirezionali, affinché vi sia un clima organizzativo migliore.

      Possiamo evidenziare la grande efficacia di promuovere relazioni cooperative e simmetriche, contraddistinte da reciprocità e motivazioni positive.

      ALLENARE L’ASCOLTO: LA NOSTRA “CALL TO ACTION”

      È evidente che le persone sono più motivate. Successivamente ottengono risultati migliori se i manager e i capi supportano i loro punti di forza, accolgono i loro contributi e dispongono le loro orecchie all’ascolto.

      Quindi è cruciale allenare questa competenza.

      Goleman diceva “quando ci concentriamo su noi stessi il nostro mondo si contrae mentre i nostri problemi e le nostre preoccupazioni incombono. Ma quando ci concentriamo sugli altri il nostro mondo si espande”

      Predisporre un ambiente più aperto e orizzontale di ascolto e di confronto può permetterci di allargare il nostro sapere, di scoprire nuovi modi di agire.

      Eppure non sempre è facile ascoltare. A tutti capita talvolta di interrompere l’interlocutore, di prestargli poca attenzione, di avere pregiudizi o dare per scontato, magari di concentrarsi di più sulla propria voce che su quella dell’altro. È ancora più difficile quando il proprio ruolo professionale fa sì che ci si scontri continuamente con una grande e crescente complessità, di informazioni, di situazioni, di scenari.

      Tuttavia il confronto è ciò che ci permette meglio di coglierla questa complessità, con uno sguardo ampio.

      Per questo può essere prezioso adottare piccoli “trucchi” di ascolto.

      Può essere utile ad esempio fare una parafrasi per restituire all’altro quanto si è compreso, esercitando la propria consapevolezza; chiedere esempi e fare domande aperte, esprimendo curiosità; e infine, allenarsi a vedere il punto di vista dell’altro come fonte sempre nuova di apprendimento continuo.

      FONTE DELLA RICERCA:

      Balconi, M., Venturella, I., Fronda, G., & Vanutelli, M. E. (2019). Who’s boss? Physiological measures during performance assessment. Managerial and Decision Economics, 40(2), 213–219. https://doi.org/10.1002/mde.2997

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    • non solo il primo architetto, ma un grande leader della trasformazione

      Filippo di Ser Brunellesco Lapi: non solo il primo architetto, ma un grande leader della trasformazione

      Sicuramente conosci la bellissima chiesa di Santa Maria del Fiore a Firenze e ti sei già lasciato affascinare dalla maestosità dell’imponente Cupola del Brunelleschi.

      Ma eri al corrente di tutte le opere e le azioni virtuose che questo grande uomo imbastì per arrivare al magnifico risultato che tutti possiamo ammirare?

      Sapevi che Filippo di Ser Brunellesco Lapi, meglio noto come il Brunelleschi, fu il primo a costruire una mensa per le maestranze? Lo fece proprio all’interno del Duomo di Firenze.

      Certamente è l’unico che nel 1400 poteva mettere in cantiere un ristorante più alto di 114 metri, collegando una cucina, appositamente predisposta, a ponteggi e strumenti di carico che potessero trasportare direttamente il cibo nel luogo in cui lavoravano gli operai, per permettere loro di non scendere a terra.

      Costruì persino dei bagni in muratura, in un ambiente in cui le fognature erano un’eccezione e non una regola.

      Da dove nascevano queste idee?

      Brunelleschi era guidato da valori forti, in base ai quali valutava le scelte da intraprendere con coerenza e responsabilità. Ma aveva anche aderito a una grande visione e successivamente era riuscito ad esprimerla nel modo migliore, partendo dal macro e arrivando a definire dettagliatamente il micro.

      La visione di Brunelleschi era la centralità dell’uomo, letteralmente: l’uomo come misura di tutto.

      Ha vissuto in un periodo in cui le scienze matematiche non erano slegate dalle scienze umanistiche, e ha fatto propria l’armonia geometrica delle forme per risaltare, con l’arte, l’umanità.

      Facciamo però un passo indietro per ripercorrere insieme la sua storia.

      Brunelleschi, storia di un genio

      Sapevi che era, prima di tutto, un orafo e uno scultore? Per la precisione fu un orafo passato alla storia come il primo vero architetto.

      Fu in grado di mettere l’attenzione di un orafo nelle piccole e piccolissime cose, per costruire grandi e maestose architetture, che tutt’ora rimangono ineguagliate.

      Egli aveva la straordinaria capacità di rappresentare la realtà in modo scientifico e rigoroso, ma aveva anche il grande desiderio di generare armonia, sia visibile che percepibile. La sua architettura è equiparabile ad una melodia che diventa solida, le cui note hanno come base le misure dell’uomo.

      Filippo fu il primo a condividere con i propri collaboratori le informazioni necessarie per costruire un edificio ma, ancora prima, trasmise loro una visione affinché fossero autonomi nel risolvere i problemi che inevitabilmente potevano emergere tra la fase di progetto a quella del cantiere.

      Inoltre fu il fautore della prospettiva lineare, che sarà alla base delle rappresentazioni dell’arte del Rinascimento fiorentino. Un’invenzione prodigiosa per riprodurre la realtà in tutte le sue forme.

      Cosa rende importante Brunelleschi

      Si racconta come l’artista sia stato in grado di costruire la cupola del Duomo di Firenze partendo da una visione fortemente condivisa ma non propria. La cupola infatti era già dal 1294 protagonista degli affreschi del Bonaiuti situati nel Cappellone degli Spagnoli nel Convento di Santa Maria Novella. Eppure, 200 anni dopo, il progetto era ancora sogno e fantasia. Filippo Brunelleschi ebbe il coraggio di seguire il sogno e di tramutarlo in realtà, esplorando tutti i campi del sapere conosciuto e ricercando strumenti concreti ed efficaci per compiere l’impresa.

      Le sue capacità non furono solamente ingegneristiche e tecniche, anzi, si potrebbe dire che la relazione fu lo strumento principale per la realizzazione dell’opera.

      Il potere della relazione

      1. Dovette intrattenere una relazione efficacie con la committenza, per capire le sue vere richieste, per comprendere i dubbi dei suoi interlocutori e la loro paura del nuovo; per trovare il miglior modo di esprimere la sua visione, o meglio il progetto che immaginava di realizzare. Si narra che prese un uovo per spiegarsi, lo ruppe a metà per presentare con chiarezza la forma e la struttura della cupola, mostrando efficacemente come fosse possibile mantenere l’edificio in piedi. Utilizzò miniature, oggetti di ogni genere, metafore illuminanti, per dare alle persone la possibilità di vedere.
      2. Anche la relazione con i suoi collaboratori fu però curata nel dettaglio: riuscì a spiegare loro come costruire e utilizzare gli strumenti lavorando lui per primo con essi, così come gli altri operai, per dare l’esempio. Costruì prototipi esplicativi utilizzando l’intaglio nella frutta o nella verdura. Rese i lavoratori autonomi e liberi nel proporre soluzioni ancora più funzionali di quelle che lui aveva pensato.

      Infine riuscì a sfruttare al meglio i materiali a disposizione. Evitò perdite o sprechi, per collocare ogni “tassello” nella posizione più corretta e funzionale a sostenere, non solo la cupola ma anche la visione, e quindi l’obiettivo, condiviso.

      Filippo Brunelleschi portò le persone centoquattordici metri sopra il cielo, per permettere loro di osservare il mondo, così che potessero agire nuovi comportamenti una volta scese, con una nuova consapevolezza. Costruì un’opera non solo artistica e architettonica, ma anche urbanistica, perché visibile da molteplici punti della città di Firenze, così che l’uomo, guardandola, non potesse che elevarsi.

      La leadership del cambiamento e la metafora artistica: cosa ci insegna il Brunelleschi?

      • LA VISIONE E IL PURPOSE CONDIVISI SONO ALLA BASE DELL’IMPRESA

      Mentre il Bonaiuti, primo a rappresentare graficamente la cupola, può essere considerato l’esempio metaforico della capacità di Visione, Filippo Brunelleschi ci dimostra che La Visione e il Purpose diventano realtà solo quando si attivano una serie di azioni finalizzate a concretizzare il proprio progetto. Inoltre, se non si analizza approfonditamente il contesto e non vengono ricercati in esso i mezzi per realizzare l’obiettivo, la Visione resta fine a sé stessa. Per prima cosa Brunelleschi ha condiviso profondamente questa Visione e poi è riuscito a trasmetterla agli altri, “negoziando” il suo progetto con le persone che potevano contribuire a realizzarlo.

      • LA CAPACITA’ DI VEDERE OLTRE

      Sicuramente aveva chiarezza rispetto agli obiettivi da raggiungere ma non solo: riusciva a vedere l’insieme, a scorgere il puzzle guardando i singoli pezzi. Conosceva approfonditamente il contesto di intervento e vedeva con gli occhi della mente prima ancora che le opere fossero realizzate. Per compiere un progetto così ambizioso Brunelleschi ha dovuto allargare le convinzioni in primis proprie e poi degli altri, attraverso il dialogo generativo.

      • LA COMUNICAZIONE EFFICACE

      Era abile nel comunicare, nel coinvolgere e nel trasferire agli altri quello che intendeva realizzare. Lo faceva dando lui l’esempio, utilizzando metafore ad hoc, mostrando oggetti che potessero dare forma alle proprie idee. Ma era anche disponibile al confronto ed alla negoziazione, perché coglieva nei contributi degli altri la possibilità di apprendimento.

      • LA LOGICA SISTEMICA E LA CENTRALITA’ DELL’UOMO

      L’architetto si è assunto in prima persona la responsabilità dell’esito del suo lavoro e grazie alla sua capacità di lavorare in una logica sistemica, guardava all’opera nella sua complessità ed interezza. Per questo ha creato la mensa, la cucina e i bagni nel cantiere. Perché per realizzare il Duomo ha avuto cura delle esigenze di ogni persona, in modo che tutti potessero contribuire al meglio. L’uomo è infatti sempre al centro, la principale unità di misura di ogni sua opera. Filippo Brunelleschi dimostra in ogni istante grande fiducia nelle persone e si impegna a creare un ambiente a cui le persone amino davvero appartenere.

      L’esempio di Brunelleschi per noi di Hermes Consulting

      Noi di Hermes guardiamo a Ser Filippo Brunelleschi come a una guida; un esempio virtuoso di leadership. Per questo raccontiamo la sua storia, portiamo i team di direzione davanti alle sue opere al fine di:

      • Riflettere sull’essere capo e sulle capacità necessarie alla gestione del proprio team
      • Favorire l’espressione di una leadership partecipativa orientata all’ascolto, al supporto, allo sviluppo e al confronto.
      • Capire come comunicare efficacemente e come coltivare le relazioni con i collaboratori in modo generativo.
      • Esplorare le capacità del leader efficace, sperimentandole concretamente così da presidiare al meglio il ciclo di gestione delle risorse.
      • Guidare lo sviluppo di consapevolezza, unita alle conoscenze e alle capacità per affrontare al meglio i momenti significativi di confronto con i collaboratori.
      • Ampliare lo sguardo verso la crescita e l’apprendimento continuo e lavorare sulla gestione degli obiettivi
      • Seguire le orme dell’artista per realizzare una visione insieme; perché è la relazione il vero spazio di azione del leader

      Filippo di Ser Brunellesco Lapi protagonista nell’outdoor culturale

      L’esempio di Filippo Brunelleschi ci porta a riflettere molto profondamente sulla complessità celata nel ruolo di capo e sull’importanza della relazione con il proprio team.

      Hermes racconta la sua storia in uno dei suoi Outdoor Culturali, utilizzando le vicende celate nell’opera d’arte della cupola come strumento di straordinaria efficacia, per muovere l’energia delle persone, le loro potenzialità e le loro risorse.

      Riesce, attraverso l’arte, ad accendere la sfera emotiva della mente risvegliando così la motivazione e la proattività delle persone, stimolandone anche il pensiero critico e razionale. Per questo ottiene come prodotto l’accelerazione di risultati concreti.

      Si tratta di un’esperienza di crescita e di apprendimento mediata dal linguaggio dell’arte, vissuta e percepita sulla pelle nella sede stessa in cui l’opera risiede.

      Questo tipo di Outdoor ci permette di riflettere su molte cose; sicuramente ci aiuta a rispondere a queste domande:

      • Come possiamo essere leader del cambiamento?
      • In che modo possiamo comunicare in modo efficace?
      • Come possiamo realizzare i nostri obiettivi curando nel modo migliore la relazione con tutti gli stakeholders?

      Inoltre il racconto della realizzazione di un’opera “impossibile” e del suo autore, ci permette di sviluppare nuove modalità di pensiero, orientate ad una cultura del Problem Solving, come strumento per contenere e gestire la complessità.

      Brunelleschi già seicento anni fa ci ha insegnato tanto. Prima di tutto ci ha mostrato che una grande opera, come quella di Santa Maria del Fiore, non può essere realizzata senza porre le persone al centro.

      Per conoscere meglio i nostri Outdoor culturali clicca qui.

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    • Serve volare in alto

      Serve volare in alto per avere i piedi per terra

      Come usare la metafora artistica per rendere concreto il cambiamento in azienda

      Ogni nostra grande scoperta è guidata da un’insaziabile curiosità. Questa stessa curiosità ha portato Hermes ad ascoltare molte storie in questi 25 anni di attività, con grande ammirazione e trasporto. Si tratta delle tante narrazioni che l’arte ci racconta, in silenzio, ma con grande potenza.

      Attraverso l’arte possiamo guardare al domani, possiamo osservare tutte le strutturazioni di futuro possibile, per ispirare gli altri, per andare verso il migliore percorso.

      La metafora artistica ci permette di vedere oltre la proiezione del presente, guardando piuttosto a nuovi modi di agire, che mai avevamo messo in pratica prima.

      Perché l’arte ha un codice aperto e ci arriva dritta al cuore prima ancora di essere “letta”.

      Ci permette di partire da quello che le persone sentono nel profondo e di progettare con le persone strategie di cambiamento che siano radicate in questo sentire.

      Potrebbe sembrare paradossale ma per noi “serve volare in alto per avere i piedi per terra”; poiché fino a che non vengono riscoperti il sogno e il desiderio radicati nel nostro agire la scintilla del cambiamento non scatta.

      Abbiamo imparato che i progetti migliori e più riusciti non hanno solo un’accurata pianificazione e una struttura ben studiata; nascono dal sogno e hanno un’anima palpabile.

      La metafora artistica è il nostro modo per far leggere il futuro alle aziende, per ispirare con grandi storie, che ci raccontano il valore dell’unione e della condivisione, dell’integrità e dell’inclusione, della giustizia e della saggezza.

      Perchè l’arte ha questo potere?

      Ognuno ha in sé delle risorse da scoprire e un potenziale autorigenerativo in attesa di essere stimolato. L’arte svolge questa funzione e ci consente di credere nelle capacità nascoste in ognuno di noi.

      Può essere origine di grandi cambiamenti e può favorire la conoscenza di sé stessi e delle proprie potenzialità in ottica evolutiva. Questo potere si esplicita in particolar modo quando non si è in solitudine ma l’arte viene mediata dalla presenza dell’altro; dal dialogo e dalla relazione.

      Permette di dare un’identità precisa ai problemi che ci affliggono e di esprimersi grazie a uno strumento di confronto.

      Spesso ci consente di vedere in modo diverso le nostre difficoltà, di arrivare a un’intuizione, un insight, che ci rende prossimi al superamento degli ostacoli.

      Edith Kramer, pittrice e terapeuta, diceva che “l’opera d’arte è un contenitore di emozioni” e Vygotskij, uno dei padri della psicologia, parlava della creatività e dell’immaginazione come elementi necessari per una migliore conoscenza della realtà, poiché stimolano la ricerca di nuove soluzioni e aprono le porte al cambiamento.

      Per noi l’arte non è una fuga dalla realtà, anzi ci permette di incorniciarla, di conoscerla meglio, guardandola con nuovi occhi. Ci consente inoltre di esprimere concetti che rimarrebbero altrimenti celati e magari censurati, se utilizzassimo unicamente il canale verbale.

      L’arte ha anche un linguaggio a sé stante, polisegnico, che muove processi profondi e permette di lavorare sul proprio presente.

      La dimensione creativa dell’opera d’arte porta a superare i nostri blocchi e a porre sul tavolo i nostri vissuti insieme ai contenuti emotivi e cognitivi che ne fanno parte.

      L’arte per il management

      Noi portiamo chi guida le aziende a vivere esperienze a stretto contatto con la storia dell’arte. Chiamiamo questi momenti Outdoor Culturali.

      Qui le direzioni aziendali hanno uno spazio per guardare sé stesse nel profondo, riflettere sul loro scopo, sul vero purpose dell’organizzazione. Scoprono o riscoprono i valori autentici che fanno loro da stella polare e si lasciano ispirare, per poi convergere in un’unica-MENTE INSIEME, coesa, allineata e consapevole.

      Grazie agli stimoli che le metafore artistiche operano, i team di direzione:

      • ragionano sulle proprie dinamiche
      • arrivano a trovare un punto di convergenza e a superare il conflitto
      • reagiscono facendo un passo indietro rispetto a tanti comportamenti disfunzionali alla trasformazione e al cambiamento davvero sostenibile.

      Attraverso questo approccio si utilizza l’isomorfismo tra l’esperienza dell’azienda e la rappresentazione artistica, per aprire finestre e per produrre salti di pensiero più veloci. Le persone acquisiscono maggiore consapevolezza del proprio essere, del proprio agire e di dove vogliono giungere.

      Ecco perché negli anni abbiamo continuato a progettare nei luoghi d’arte, portando alle aziende esperienze artistiche che fossero isomorfe e rigenerative

      • Isomorfe, perché, come postula una teoria psicologica della Gestalt, “può esserci identità di forma fra esperienze e processi fisiologici sottostanti”. Quindi, guardando l’opera d’arte le persone possono effettivamente vedersi nella storia e sentirsi parte di essa.
      • Rigenerative, perché sono in grado di aprire porte e finestre in cui ognuno può allocarsi; permettono di generare “salti di intuizione” miracolosi.

      L’arte in Hermes è un punto di partenza per iniziare un lavoro che permetta il confronto e lo scambio di pensieri, al fine di sviluppare una visione comune del tema trattato.

      Dove i partecipanti che già da tempo lavorano insieme possono affrontare un’attività di profondo impatto emotivo, durante la quale è il gruppo stesso che si mette in gioco ed esplora le dinamiche al suo interno.

      Perché è importante “vedere e sentire” il risultato da raggiungere, e l’arte, le immagini, le emozioni, ci aiutano a rendere il sogno una splendida realtà.

      Se vuoi conoscere in modo più approfondito i nostri Outdoor Culturali e capire come utilizziamo la metafora artistica clicca qui.

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    • ConVision

      Contribuire alla creazione di una strategia sostenibile con la ConVision

      Molte ricerche internazionali ci mostrano che solo il 50% delle strategie disegnate dai Manager di grandi aziende europee arriva a realizzarsi e a perdurare poi nel tempo.

      Sembra che la vera ragione risieda nel fatto che non è davvero chiaro come concretizzarla, calandola nel contesto di applicazione.

      IRiS è un sistema formativo/metodologico ideato da Hermes Consulting, che vede l’azienda come un organismo vivente e utilizza questa visione per facilitare il raggiungimento del risultato che l’azienda si prefigge.

      Un risultato sostenibile che duri nel tempo avendo un impatto positivo sul futuro.

      La nostra strategia parte dal presupposto che sia impossibile arrivare al risultato desiderato se l’obiettivo non è stato colto da tutta la mente dell’organismo- azienda. Ecco perché per noi è fondamentale che ci sia un allineamento e un’adesione mentale profonda alla visione, da parte di tutto il cervello. Lo chiamiamo UNICA-MENTE INSIEME.

      L’Unica-Mente Insieme

      In azienda la mente è costituita dal “capo”, dall’amministratore delegato, e da tutte le persone che, di fatto, hanno il ruolo di guida nell’ azienda.
      Se questo gruppo non ha capito la direzione, non ha chiaro risultato o non è d’accordo con il suo raggiungimento, il cervello darà informazioni diverse alle mani e ai piedi, quindi l’organismo perderà coordinazione ed equilibrio solo dopo pochi passi.

      Però anche quando il risultato è stato immaginato e tutto il cervello concorda è necessario che le mani sappiano afferrare e che i piedi possano camminare per raggiungere la meta. Questo come è possibile?

      Gli arti devono necessariamente avere delle informazioni dal sistema neurologico e stabilire delle sinapsi, ovvero delle connessioni, in modo da informare ogni estremità del corpo sulla direzione da perseguire.

      Solo dopo aver riconnesso le parti, è possibile far calare le informazioni. Tutti gli snodi devono essere allineati e rispondere agli input della mente, altrimenti il messaggio non passerà.

      Noi chiamiamo ConVision lo spazio in cui questo avviene.

      Che cos’è la ConVision?

      Si tratta di creare uno spazio di condivisione in cui riunire l’intero Management dell’azienda, per generare un allineamento verso la direzione da perseguire, che possa portare ad una concretizzazione della Strategia Aziendale delineata. Vision e linee guida strategiche devono essere chiare, comunicate e integrate nelle azioni quotidiane, ricercando coerenza a tutti i livelli dell’Organizzazione.

      Nella ConVision ognuno è protagonista e può raccontarsi in un dialogo costruttivo con l’altro. Grazie a questo momento di confronto si rafforza ancora la coerenza di visione, di valori e di purpose. Vengono tracciati tutti i punti di intersezione dell’interno sistema.

      Si tratta di uno spazio generativo che permette la condivisione di esperienze comuni, emotive, relazionali, cognitive ed informative. Un momento per riconoscere che l’agire collettivo quotidiano è guidato da uno scopo condiviso, che rende l’azienda un luogo di appartenenza comune.

      Consiste nel garantire il collegamento efficacie tra persone e gruppi reali; far fluire l’informazione al sistema attraverso le connessioni, perché finché non si stabiliscono sinapsi e non si crea un dialogo generativo, le persone non comunicano davvero, non ricevono le informazioni dove e quando serve, e il cammino si arresta bruscamente.

      La ConVision come strumento

      La ConVision è uno strumento per avere un riscontro, per raccogliere spunti preziosi al fine di implementare la strategia; ma è anche un mezzo attraverso il quale le persone possono avere feedback concreti, per sapere come migliorarsi, come migliorare il gruppo e affinare i movimenti dell’organismo-azienda. Rappresenta, infatti, una Call to Action, perché ognuno è chiamato a contribuire attivamente e responsabilmente.

      La ConVision nasce dalla profonda convinzione che per raggiungere la meta è importante condividere a tutti i livelli dell‘Organizzazione il senso del viaggio, in modo che ognuno possa aggiungere un pezzo al puzzle che compone il risultato.

      Nelle ConVision si attiva la co-creazione, per specificare meglio la strategia, risolvere i problemi che la possono sabotare e realizzare obiettivi trasversali.

      Il grande scopo di questo momento è attivare il coinvolgimento di tutti attraverso alcuni passi che ci avvicinano ad un risultato.

      Perché la stessa ConVision ha un DNA sostenibile?
      • Perché raccoglie insieme tanti lavoratori dell’organizzazione e li chiama “partecipanti”, che a vario titolo contribuiscono all’ ideazione, alla progettazione e alla realizzazione del futuro.
      • È un contenitore di esperienze. Ogni lavoratore può trovare uno spazio per creare, per esprimere le proprie potenzialità e avere uno spazio di espressione.
      • È sostenibile perché vede l’azienda come un ecosistema interconnesso. l’azienda deve unire tutte le sue cellule per agire, e perché nasce sulla base di un purpose, uno scopo che trascende il risultato economico e che guarda il mondo in senso allargato, cercando di capire come rispondere a bisogni profondi.
      • Perché nasce con l’idea di costruire la strategia co-costruendo senso.
      • Progetta con le persone al centro e agisce in modo da trattare l’umanità delle persone sempre come fine e mai come mezzo.
      • Adotta un approccio improntato sul co-design e delinea l’organizzazione del futuro coinvolgendo l’intero organismo- azienda nel percorso.
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    • L'azienda del domani pratica l'ascolto interno

      L’azienda del domani pratica l’ascolto interno

      Capita spesso che molte strategie aziendali ben costruite e finemente progettate non arrivino a compimento, anche se frutto di un piano accurato e di solide ragioni d’essere.

      La verità è che avere il migliore progetto non sempre basta, è anche fondamentale creare le condizioni adatte all’implementazione reale di un cambiamento, è necessario praticare quello che noi chiamiamo “ascolto interno”.

      Dunque possiamo guardarci dentro, ascoltarci e capire come può attecchire il cambiamento nella nostra realtà lavorativa.

      Ma da dove iniziare per praticare l’ascolto interno?

      Per praticare l’ascolto interno possiamo cominciare immaginando di indossare la tuta del giardiniere.

      Guardiamo con i suoi occhi la terra in cui seminare e prendiamo decisioni su come disporre i semi e i piccoli germogli nello spazio. Non possiamo coltivare le piante disponendole a caso sul suolo, perché ogni organismo vegetale ha bisogno di luce in quantità diversa e di terreni specifici, acidi o basici.

      Affinché il tuo giardino fiorisca, devi prestare attenzione all’esatto punto in cui innestare le piante, in modo da creare le condizioni per farle crescere alte, sane e rigogliose.

      Per farlo l’organismo-azienda si pone molte domande.

      Parte chiedendosi, per esempio:

      1. Il cambiamento è in linea con i valori, con il purpose e con la visione collettiva?
      2. Tutto il management team è a conoscenza del cambiamento?
      3. Lo supporta e lo sa spiegare alle persone?
      4. Sa indirizzare la gente lungo la strada del change?
      5. Può dare i giusti feedback a chi il cambiamento lo implementa?
      6. Le persone si riconoscono davvero nell’idea che sottende la trasformazione?
      7. Hanno le competenze e la motivazione per attuarla?

      Qualsiasi progetto per andare a buon fine e protrarsi nel tempo deve essere in linea con l’identità dell’azienda, con ciò che è e ciò che fa. Per questo l’avvio di una strategia non può che sottendere un tempo di confronto e di condivisione, dove i valori, lo scopo profondo e la visione dell’organizzazione trovino uno spazio per emergere.

      Se è chiaro il punto di partenza e quello di arrivo, c’è poi da chiedersi se tutti hanno davvero compreso il senso del viaggio, se vogliono implementarlo, se possono implementarlo.

      Quanto è faticoso e dispendioso il percorso?

      Non è mai funzionale spingere qualcuno a fare qualcosa che non è in grado di fare. La diretta conseguenza è il blocco, il senso di impotenza e la delusione per il fallimento.

      Partiamo da qui per capire come mettere in pratica l’ascolto interno.

      Prima di intraprendere un cambiamento chiediamoci questo:

      • Il cambiamento è chiaro alla direzione generale? Lo vuole davvero? Lo sponsorizzerà?
      • I Manager dell’azienda sono a conoscenza del processo di cambiamento e ne fanno davvero parte? Hanno contribuito anche loro a costruirlo?
      • Lo sanno spiegare? Hanno capacità di comunicazione e di ingaggio? Sanno dare feedback? Mantengono un dialogo aperto con chi deve compiere i primi passi?
      • Le persone hanno avuto modo di informarsi e di comprendere il cambiamento e gli effetti che avrà su di loro?
      • Le singole funzioni hanno adottato o possono adottare questi cambiamenti per fare una trasformazione strutturale?
      • Le persone hanno contribuito con il loro ingegno a finire la strada e definire la direzione da prendere?
      • Tutto questo è stato comunicato in modo chiaro e coerente anche all’esterno dell’azienda?

      Occorre porre lo sguardo su tutte le strutture organizzative e sulle singole funzioni che costituiscono l’azienda, perché quando viene implementata una strategia nuova e diversa dall’ordinario questa va ad impattare in modo profondo tutto il sistema: apparati, organi, tessuti e cellule.

      Il giardino di Hermes

      Noi di Hermes siamo da sempre giardinieri e architetti del terreno, perché creiamo le condizioni affinché quello che viene seminato possa crescere rigoglioso nel tempo ma lo facciamo disponendo spazi di ascolto e di dialogo profondo; di confronto, di collaborazione e di co-creazione, dove tutti possono contribuire alla realizzazione del proprio futuro.

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    • leader della trasformazione

      Come si può essere leader della trasformazione sostenibile?

      Il metodo IRiS di Hermes Consulting guarda all’azienda come ad un sistema vivente, che cammina verso la visione, guidato dalla luce del purpose e dei propri valori.

      Quando pensiamo all’azione di camminare non siamo portati a soffermarci su tutti i movimenti fini che compiamo e che si susseguono fluentemente, in modo coordinato.

      Per compierli il nostro organismo deve connettere tutte le sue parti ed è il sistema nervoso a concretizzare questa magia.

      In azienda il Sistema Nervoso è rappresentato dalla direzione generale e dai Manager, poiché sono loro gli snodi di connessione capaci di inviare messaggi al corpo ma anche di riceverli, in modo da mantenersi orientati sulla strada da seguire.

      Per questo si chiamano “leader della trasformazione sostenibile”, perché è grazie a loro si riesce a mantenere vivo lo scopo condiviso.

      Il ruolo del Leadership Team per una trasformazione sostenibile

      La nostra metodologia IRiS sostiene che per realizzare “il viaggio del cambiamento” sia necessario innanzitutto un Team di Direzione coeso e allineato su uno scopo condiviso, che possa declinarsi in una strategia concreta e progettuale.

      Per agire possiamo supportare I leader nella riflessione:

      • Quali principi vogliamo perseguire?
      • Quali cose contano di più per la nostra azienda?

      I leader del futuro creano e condividono Visione e valori, li seguono con coerenza ed inviano input a tutto il sistema, comunicandoli e trasmettendoli in modo chiaro.

      Il leadership team rafforza la sua azione diventando una “Unica-Mente Insieme”.

      Dedica uno spazio di condivisione alla conoscenza e consapevolezza reciproca per definire la propria visione e trasformarla in una strategia concreta e progettuale.

      Come si può ingaggiare e orientare tutta l’azienda verso il viaggio di cambiamento?

      Con IRiS costruiamo delle Con-vision in cui si attiva la co-creazione fra i Manager, per specificare meglio la strategia futura, risolvere i problemi che la possono sabotare e realizzare obiettivi trasversali.

      Con IRiS i leadership Team sono portati a condividere a tutti i livelli dell‘Organizzazione il senso del viaggio, in modo che ciascuno possa contribuire al risultato.

      Infine, sanno cogliere l’energia e la passione delle persone, consentono loro di esprimere nuove abilità e nuovi modi di agire, diffondono una cultura della responsabilità; guidano verso l’auto-regolazione e l’autodeterminazione.

      Una ricerca di Accenture in collaborazione con il world Economic Forum ha evidenziato tra le principali priorità delle organizzazioni nei prossimi 3 anni quella di “diventare veramente aziende sostenibili ed eque”. Si tratta di una trasformazione virtuosa e strategica perché non solo tutela il nostro domani; è dimostrato che avere un DNA sostenibile genera profitti più alti e risultati di successo.

      Secondo la nostra esperienza per sostenere la trasformazione sostenibile ogni leader deve utilizzare alcuni ingredienti chiave, quali

      • Value & purpose

      il leader della trasformazione sostenibile guarda e cammina verso obiettivi comuni, guidato da una visione condivisa e da un purpose orientato allo sviluppo sostenibile.

      • Inclusion

      Nel prendere decisioni il leader deve sapersi calare nei panni di tutti gli stakeholders coinvolti, in modo da tutelarne la fiducia imboccando la strada del bene comune, con azioni dall’impatto positivo per tutta la comunità. Deve quindi promuovere un ambiente aperto ed a inclusivo dove tutte le persone possano mettersi in gioco e far sentire la propria voce.

      • Open mind

      Il leader della trasformazione sostenibile vede l’organizzazione come centro di espansione umana a servizio della migliore vita per tutti, per questo crea un ambiente dove possano essere sperimentate nuove abilità e nuove strategie, guidate da impegno e da creatività. Ha un Mindset orientato alla crescita ed è flessibile, con uno sguardo ampio, le orecchie aperte e il cuore orientato verso le persone.

      • Trasformative Learning

      Per trovare strade nuove e migliori il leader della trasformazione coltiva la comunicazione aperta e orizzontale, favorendo lo scambio di conoscenze o di esperienze e abbracciando l’apprendimento continuo.

      • Digital Transformation

      Infine sa innovare responsabilmente con la tecnologia emergente senza che nessuno rimanga indietro, creando così valore sociale e organizzativo.

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    • Il grande potere dei valori

      Il grande potere dei valori

      A volte pensiamo ai valori aziendali come a concetti astratti e poco tangibili, magari lontani dal risultato concreto e visibile, eppure sanno guidarci e dirigono le nostre azioni, influenzando la nostra esperienza.

      Questo perché sono i costrutti motivazionali che ci permettono di categorizzare cosa è davvero importante, indicandoci quali scopi vogliamo raggiungere, proprio come una mappa ci indica il percorso da seguire.

      Che cosa per te è bene? Che cosa è un male? Cosa è giusto e cosa non lo è? Cosa desideri e cosa va assolutamente evitato?

      Grazie ai nostri valori aziendali sappiamo rispondere alle domande e ci orientiamo con chiarezza, competenza ed efficacia nella vita personale ed in quella lavorativa.

      I valori aziendali scandiscono le nostre priorità e dirigono il nostro agire ad ampio raggio, perché rappresentano i criteri in base a cui confrontarsi con gli eventi e orientare la nostra condotta aziendale.

      Abbiamo visto che le organizzazioni possono essere viste come organismi viventi, dunque i valori sono i principi che permettono loro di respirare, di camminare e di vivere perché sono un connettore potente che crea sinapsi in tutto l’organismo-azienda, così che possa armonizzare i suoi movimenti, donando coerenza alla visione della squadra e alimentando la responsabilità e la partecipazione di tutti.

      I valori aziendali come sistema immunitario dell’organizzazione

      Seneca diceva che non esistono mai venti favorevoli per il marinaio che non sa dove andare. In azienda questo significa che non si può aspirare ad uno sviluppo futuro se non ci sono punti nave a cui aggrapparsi.

      Il celebre sociologo Aaron Antonovsky (1923-1994) ha investigato a fondo la relazione tra stress, salute e benessere e ha scoperto un legame profondo tra l’attribuzione di significato e il superamento delle avversità.

      Lui parla di “SALUTEGENESI” e si occupa di studiare tutto ciò che permette alle persone di stare bene e in salute, anche davanti a traumi e grandi difficoltà.

      In parole semplici la sua domanda è: qual è la genesi della salute? Quali sono le cause del benessere?

      L’ individuazione di significato e la costruzione di senso sono la terapia quotidiana per compiere scelte consapevoli utilizzando le proprie risorse; poiché l’uomo per natura è un cercatore di significato, mosso dal desiderio di senso.

      Non a caso, Lo psichiatra Viktor Frankl sosteneva che “noi essere umani abbiamo bisogno di essere orientati verso qualcosa che ci trascende, verso qualcosa che sta al di sopra di noi stessi, un significato da realizzare, una missione più grande di noi in cui credere”

      Secondo lui per muoversi in direzione della salute con resilienza e proattività è necessario il “Senso di Coerenzae in azienda la coerenza si ottiene quando si ha uno scopo comune e si condividono dei punti di riferimento, quali sono i valori.

      La profondità del Senso di Coerenza incide sulle capacità delle persone di utilizzare le risorse disponibili per conservare il benessere.

      Dà all’azienda la capacità di reagire in maniera flessibile alle sollecitazioni esterne, proprio come il nostro sistema immunitario reagisce e combatte gli agenti patogeni.

      Quando i valori delle persone non sono congruenti al contesto organizzativo in cui si trovano, sviluppano un conflitto interno che genera in loro un forte stress e una marcata frustrazione.

      Ne consegue che la loro motivazione cala, cala l’entusiasmo e la concentrazione si riduce. Ci si allontana sempre più dal risultato e per questo il raggiungimento degli obiettivi personali e aziendali è a profondamente a rischio.

      Ecco perché è bene comunicare chiaramente i valori a tutti i livelli del sistema-azienda, coinvolgere ogni cuore nella loro costruzione e seguirli con coerenza nelle proprie azioni.

      Così chi sarà in conflitto con essi capirà facilmente che sta intraprendendo una strada sbagliata e ne imboccherà una diversa, mentre crescerà sempre più la motivazione e l’energia di chi si sente riconosciuto e vuole davvero far parte della squadra.

      Ma come si fa ad avere dei valori aziendali forti?

      Sviluppare i valori aziendali è un lavoro di squadra; è il prodotto di un allineamento tale per cui tanti cuori, da separati, battono all’unisono con un unico ritmo forte.

      Per questo occorre trovare dei momenti per ritrovarsi insieme, in modo da co-costruire dei valori condivisi.

      Il miglior modo di procedere è prendersi tempo per riflettere e farsi le giuste domande: Quali principi vogliamo perseguire? Quali cose contano di più per la nostra azienda?

      Si può, ad esempio, partire dai singoli e chiedere ad ognuno di esporre i propri valori, per poi confrontarli tra di loro.

      È utile quindi fare un brainstorming elencando dapprima tutti i contributi e poi i punti più rilevanti e condivisi, allineando così ogni persona e favorendo il senso di appartenenza e la cooperazione, poiché si è costruita una visione condivisa.

      Quindi come possiamo riassumere il grande potere dei valori aziendali?

      • I valori sono un punto di riferimento e una guida per definire le priorità e per orientare le azioni aziendali, proprio come può esserlo la stella polare.
      • Generano coesione, unificando le persone davanti ad un unico scopo condiviso e una visione chiara.
      • Alimentano la pro-attività e la responsabilità della squadra e ci aiutano a prendere decisioni complicate.
      • Modellano la cultura dell’azienda a tutto tondo e la muovono verso gli obiettivi.
      • Generano Libertà, perché consentono di evitare eccessi di regolamentazione interna, poiché le persone si auto-regolano e responsabilizzano rispetto alle loro azioni. Quindi vengono ridotte le decisioni centralizzate e si alimenta la crescita di gruppi di lavoro vivaci che agiscono efficacemente
      • Nutrono la soddisfazione lavorativa delle persone, che si sentono allineate e in armonia con la loro azienda.
      • Danno forza e sicurezza all’ecosistema aziendale; una forza tangibile, che si riflette nella fiducia degli stakeholders.
      • Eliminano con incredibile efficacia e velocità “gli elementi nocivi“, ovvero quegli ostacoli all’interno del sistema che rischiano di sabotare il progetto comune.
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    • Human Transformation

      Human transformation: come abilitare il mindset del cambiamento?

      Gli approcci al cambiamento: la human transformation

      Come vi approcciate al cambiamento? Siete di quelli che lo vivono con disagio? Oppure siete di quelli che lo vivono come una sfida?

      Nella nostra esperienza abbiamo visto che al di là del fatto che lo guardiamo in un’ottica positiva piuttosto che negativa, tutti lo affrontiamo.

      Per questo motivo è importante, a nostro avviso, interrogarsi su quali vantaggi porta un mindset orientato al cambiamento. Grazie a un approccio più funzionale, le persone riescono a stare nei cambiamenti, attraversarli in modo consapevole, adattandosi al meglio con gli input esterni ed interni.

      Di fatto i cambiamenti che noi li vogliamo o li contrastiamo avvengono costantemente, noi stessi siamo perennemente in mutazione e quindi la cosa migliore da fare è sviluppare un approccio mentale che ci permetta di sviluppare un’adattabilità efficace.

      Cambiare non significa sostituire una cosa con un’altra, ma significa vedere un’altra opzione…non si tratta di  abbandonare ma di aggiungere.

      Cambiare è insito negli esseri umani e lo è anche e grazie soprattutto a come funziona il nostro cervello, per questo parliamo di human transformation. Non siamo immutabili come alcuni pensano, ma anzi siamo predisposti al cambiamento grazie alla neuroplasticità del nostro cervello. E questo è testimoniato dal fatto che siamo qui oggi diversi da ieri e da come saremo diversi domani.

      Ma vediamo meglio di cosa stiamo parlando.

      Neuro plasticità del cervello

      La Neuroplasticità è la capacità del nostro sistema nervoso di adattare la sua struttura e la sua organizzazione in risposta ad una grande varietà di fattori interni e esterni. Ma vediamo meglio come si sviluppa e come si alimenta questa capacità.

      I primi ricercatori credevano che la creazione di nuovi neuroni si fermasse poco dopo la nascita.

      Oggi sappiamo che il cervello possiede non solo la capacità di riorganizzarsi e di creare nuove connessioni ma in alcuni casi anche di creare nuovi neuroni.

      Il cervello umano ha circa 86 miliardi di neuroni o cellule nervose.

      Nei primi anni di vita il cervello cresce rapidamente. Alla nascita, ogni neurone nella corteccia cerebrale del bambino evidenzia già intorno alle 2500 sinapsi, cioè 2500 connessioni con altri neuroni; All’età di tre anni, le sinapsi sono già 15.000. Poi la curva scende.

      Man mano che acquisiamo nuove esperienze, alcune connessioni vengono rafforzate mentre altre vengono eliminate. Questo processo è noto come potatura sinaptica.

      Sviluppando nuove connessioni e potando quelle deboli, il cervello è in grado di adattarsi all’ambiente che cambia.

      Ci sono alcune caratteristiche che definiscono la neuroplasticità:

      • Le sinapsi si formano quando impariamo, quando facciamo delle esperienze nuove, quando formiamo la memoria. È un processo costante
      • I cervelli giovani sono chiaramente più sensibili e reattivi al nuovo, ma questo non significa che i cervelli adulti non sappiano adattarsi e cambiare.
      • La plasticità è in corso per tutta la vita.

      Quindi cosa possiamo fare per tenere il cervello attivo?

      • Stimolarci attraverso l’apprendimento di una nuova lingua o di uno strumento
      • Viaggiare, confrontarsi con culture diverse
      • Riposare… ebbene sì per far crescere le connessioni neuronali e costruire le autostrade della nostra crescita serve anche il riposo!
      • E naturalmente cambiare, fare le cose diversamente, uscire da certe routine sia nel fare che nel pensare.

      A proposito di routine…routine non sono solo le cose che facciamo tutti i giorni, sempre nello stesso modo, ma sono anche le nostre abitudini di pensiero. Gli stereotipi e le convinzioni limitanti o piuttosto i bias sono delle fantastiche strutture che permettono al nostro cervello di risparmiare energia. Di fatto questi costrutti mentali che abbiamo generato non vengono gestiti dalla mente conscia ma da la mente inconscia dove risiedono tutti i pensieri automatici. E mettere il pilota automatico per il cervello significa risparmiare energia che è uno degli obiettivi del nostro cervello.

      Cosa fare per abilitare il mindset del cambiamento e la human transformation?

      In sintesi per abilitare un mindset del cambiamento è necessario uscire dalla nostra zona di comfort, affrontare le “paure” che possono renderci immuni al cambiamento: fare le cose come si sono sempre fatte, è comodo e praticamente gratis. Per apprendere a fare cose nuove, per spingere verso la human transformation, per adattarsi all’ambiente che cambia, bisogna attivare la parte pensante del cervello, farsi delle domande, correre dei rischi, ascoltare, farsi aiutare, scervellarsi o semplicemente attivarsi …. E non solo, bisogna essere disposti ad investire energia, circa il 20% delle calorie che consumiamo giornalmente servono per il lavoro svolto dalle sinapsi nel tracciare nuove connessioni neuronali. Per cui diciamolo, cambiare ci aiuta a restare in forma!!

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    • Gender Pay Gap

      Gender Pay Gap: la lunga strada verso la realizzazione dell’inclusione

      Mentre ci accingevamo a completare questo articolo, lo scorso 26 ottobre è arrivata la notizia felice: c’è stato un primo passo verso la realizzazione di vera inclusione all’interno del nostro sistema.

      È infatti diventata legge una proposta sulla parità salariale che mira al superamento delle discriminazioni e penalizzazioni che molte donne affrontano nel nostro paese.

      Rimane un primo passo che deve poi essere messo concretamente in pratica per diventare realtà.

      Noi speriamo che venga fatto il prima possibile.

      Lo scopo di questo articolo rimane il medesimo.

      Vogliamo condividere alcune informazioni di scenario relativamente al Gender Pay che è parte del più ampio tema del divario di inclusione in ambito lavorativo.

      La partecipazione nel mercato del lavoro

      Dal secondo dopoguerra ad oggi, si è assistito ad un costante aumento della partecipazione al Mercato del lavoro da parte delle donne, le quali nel tempo (tutte le ricerche lo riportano) sono protagoniste di performance formative ottimali (spesso migliori rispetto a quelle dei colleghi uomini sia in termini di tempi che di risultati ottenuti).

      Eppure più si sale nelle scale gerarchiche delle aziende private o nella pubblica amministrazione fino alla politica, più cala la presenza femminile nei ruoli apicali. 

       Al di là del gender pay gap, si investe per preparare al meglio una parte di intelligenza del Paese che poi non viene impiegata, a discapito di tutti.

      Nel 2018, quando la consigliera per il programma di sviluppo delle Nazioni Unite Anuradha Seth aveva definito la disuguaglianza retributiva tra uomini e donne «il più grande furto della storia», la sua espressione aveva suscitato scalpore. «Non esiste un solo Paese, né un solo settore in cui le donne abbiano gli stessi stipendi degli uomini a fronte di pari competenze e istruzione».

      La situazione in Italia

      Dal 28° Rapporto sulle Retribuzioni di ODM Consulting, società di consulenza HR di Gi Group, emerge che a parità di esperienza lavorativa, il pay gap legato al genere è del 5,5% tra laureati e dell’8% tra non laureati.

      A svantaggio, manco a dirlo, delle donne, sistematicamente meno retribuite rispetto ai colleghi di sesso maschile.

      Il rapporto di ODM Consulting sembra suggerire che nel nostro Paese la recessione innescata dal Covid abbia consolidato il gender pay gap.

      Inoltre la crisi dovuta agli effetti della pandemia si è abbattuta in modo asimmetrico sul mercato del lavoro, finendo con l’azzerare più posti di lavoro femminili che maschili 

      E così la somma di problemi di vecchia data con le nuove difficoltà si traduce in un peggioramento — l’ennesimo — della condizione femminile in Italia.

      Gender pay gap, le differenze di salario tra uomini e donne

      Dall’analisi dell’evoluzione delle retribuzioni in Italia nel 2019 e nel primo semestre 2020 emerge un dato chiaro: il genere gioca un ruolo decisivo nell’influenzare gli stipendi.

      In Italia, secondo il 28° Rapporto sulle Retribuzioni, gli stipendi degli uomini sono, in media, superiori a quelli delle donne.

      Questo vale sia per tutte le categorie professionali prese in considerazione dall’indagine (dirigenti, impiegati, quadri, operai) e a tutti i livelli. 

      Gli uomini sono meglio retribuiti già all’inizio della loro carriera. 

      Le stime di ODM Consulting suggeriscono che un under 30 entrato da uno o due anni nel mondo del lavoro ogni anno guadagna in media 25.216 euro se non laureato e 29.780 euro se laureato.

      Una coetanea, a parità di titolo di studio ed esperienza, in media trova in busta paga rispettivamente 23.210 euro o 28.051 euro.

      La differenza di salario — sempre calcolata su base annuale — varia a seconda della professione e dell’inquadramento.

      Oltre i numeri

      Questi studi sono importanti per testimoniare concretamente questa disparità del gender pay gap. Tuttavia non bastano però ad inquadrare in maniera completa il fenomeno.

      La disuguaglianza è legata anche ad un tema di opportunità:

      • la prevalenza delle donne nei posti di lavoro a part time (il 73,4% dei lavoratori a tempo parziale, secondo i dati Istat del 2019, sono donne)
      • il cosiddetto “soffitto di cristallo”, che frena l’ascesa professionale delle donne, escludendole dalle posizioni meglio retribuite. È stato rilevato che solo il 32% dei dirigenti in Italia sia donna. Se guardiamo ai ruoli di vertice delle organizzazioni vediamo che le amministratrici delegate sono solo il 6,3% del totale (Fonte: Rapporto Cerved-Fondazione Marisa Bellisario 2020)

      La legge di stato sulla parità di salario è un primo passo importante. Ne restano molti altri da fare per rendere sempre più inclusiva la nostra società:

      • dobbiamo impegnarci anche per sciogliere il nodo del tema tra bilanciamento e vita privata. Ancora oggi lo sappiamo che questo aspetto va a svantaggio delle donne che optano più degli uomini per questa soluzione.
      • Bisogna continuare a fare pressione e agire per abbattere il soffitto di cristallo. Bisogna rendere le quote rosa un significativo atto a sostegno di una cultura aziendale aperta e capace di generare sempre maggiore beneficio proprio attraverso l’integrazione e valorizzazione delle diversità.
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    • Leadership inclusiva

      Leadership inclusiva: ne abbiamo veramente bisogno?

      Vuoi la globalizzazione con cui facciamo i conti tutti i giorni, vuoi gli effetti dei social, negli ultimi anni nelle aziende italiane sta prendendo sempre più campo la tematica Diversity e Inclusion.

      Nella nostra esperienza professionale avevamo già incontrato questo tema in ambiti più strutturati.

      Si trattava di realtà multinazionali che lo vivevano come aspetto di gestione importante dal punto di vista manageriale. Questo aspetto era sottolineato proprio per la loro condizione di “diversità” data dall’essere oltre realtà di territorio nazionale.

      Negli ultimi 5 anni questo tema è cresciuto in maniera esponenziale.

      Se ne parla anche nell’ambito delle realtà aziendali nazionali, ed oggi è elemento di forte focalizzazione da parte anche dei vertici aziendali.

      Cosa è Diversity e Inclusion?

      Nel glossario di Diversity Lab è molto ben sintetizzato il concetto di diversity&inclusion: “Si riferisce all’impegno a riconoscere e apprezzare la varietà di caratteristiche che rendono gli individui unici in un’atmosfera che abbraccia e celebra la realizzazione individuale e collettiva. In ambito lavorativo, con diversity&inclusion si definisce una strategia di management finalizzata a una cultura aziendale inclusiva, basata sulla valorizzazione delle differenze individuali quali fattori di innovazione e di miglioramento delle performance personali e organizzative.”

      L’ultimo passaggio chiarisce bene quale è lo scopo principale per le aziende. Essere, cioè, in grado di valorizzare le differenze al fine di migliorare significativamente le performance dei singoli individui, e di conseguenza quelle di tutta l’organizzazione.

      Per dirlo a modo nostro, è la capacità principale oggi richiesta ai manager:  riconoscere ed esaltare le differenze che fanno la differenza per la persona e per tutta l’azienda.

      Ne abbiamo veramente bisogno?

      Si senza se e senza ma è la nostra risposta. Ne abbiamo bisogno se:

      • vogliamo veramente contribuire a creare un mondo migliore
      • vogliamo veramente riconoscere una volta per tutte che è il talento umano il vero elemento che può, con l’aiuto dell’innovazione, portare o meno al successo un’azienda anche economicamente
      • l’approccio a taglia unica fino ad oggi adottato non genera più quella differenza necessaria a garantire nel tempo la sostenibilità di un’azienda, intesa come la sua durabilità nel futuro

      Agire concretamente una leadership inclusiva significa accogliere, coinvolgere e attivare persone diverse.

      Soprattutto significa metterle in condizione di dare il loro miglior contributo.

      Come gestire al meglio la Diversity e Inclusion

      Per questo la leadership inclusiva richiede molta energia, spirito di iniziativa e capacità di mettere costantemente in discussione i propri pregiudizi.

      E’ fondamentale imparare a riconoscere che ci sono delle distorsioni cognitive, o per meglio dire dei bias che in tutti noi tendono ad ostacolare l’inclusività.

      Farlo come leader è importante perché incoraggia gli altri a fare lo stesso e confrontarsi permette di lavorare assieme per superarli.

      Il leader inclusivo mette insieme abilità da alchimista e preparazione, per poter dare valore alle diversità e micro diversità.

      Messe insieme permettono ad ognuno di poter contribuire veramente a generare più valore per sè e per l’azienda.

      Questo significa elaborare una strategia di Diversity e Inclusion virtuosa, per dare spazio a tutte le anime dell’azienda.

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    • motori e promotori di sostenibilità

      Diversità e inclusione: motori e promotori di sostenibilità

      Il contesto in cui diversità e inclusione sono fondamentali

      Viviamo e facciamo business in una contemporaneità che presenta caratteristiche inedite e propone sfide mai affrontate prima.

      Siamo in quella che viene definita l’era della conoscenza: è la prima volta che l’accesso alle informazioni è simultaneo, pervasivo, democratico; è la prima volta che “il cliente” è diventato globale e i confini che disegnavano mercati e competizione sono diventati fluidi, non definibili; è la prima volta che ci troviamo ad avere fino a 5 generazioni diverse all’interno delle nostre aziende.

      Siamo passati da meccanismi unidirezionali a relazioni circolari: la comunicazione non è più trasmissione asincrona (broadcasting), ma interazione dinamica (socialmedia), l’uso esclusivo si è trasformato in sharing, il prodotto è sempre più servizio.

      Il mondo vive di feedback e di interazioni.

      Come in passato abbiamo bisogno di innovare costantemente per competere e agendo in scarsità di risorse; ma oggi siamo chiamati a farlo ad una velocità sempre maggiore, su scala globale, massimizzando l’uso di una risorsa immateriale (la conoscenza) distribuita su una moltitudine di knowledge workers.

      Il paradigma

      In questo contesto i modelli organizzativi del passato mostrano i loro limiti.

      Anche il più recente modello organico che vede l’azienda paragonata a un organismo vivente garantisce adattabilità, ma non sostenibilità nel tempo.

      Oggi si parla sempre meno di sviluppo lineare e sempre più di crescita circolare dove sostenibile è quel business in grado di generare valore per l’organizzazione, i suoi stakeholders e il sistema in cui è inserita.

      In una logica di sostenibilità abbiamo bisogno di far evolvere i nostri modelli organizzativi perché abbiano resilienza, ricchezza, flessibile stabilità: le doti di un ecosistema naturale.

      I driver evolutivi

      Diversità e inclusione sono due elementi fondanti delle strategie di sopravvivenza degli ecosistemi in natura.

      Sono caratteristiche che permettono agli elementi organici di vivere e svilupparsi nel tempo e in qualunque contesto.

      La diversità di saperi, di pensiero, di attitudini – e l’etichetta “diversità di genere è solo una prima sintesi – permette di definire soluzioni non solo adattive, ma anticipatorie e di fronteggiare in modo efficace la complessità.

      L’inclusione è il processo con cui armonizziamo queste diversità e le trasformiamo in catalizzatori della crescita sostenibile.

      Per stimolare l’innesto di questi driver nelle nostre culture organizzative abbiamo da compiere 4 passaggi fondamentali, mutuati dalle regole degli ecosistemi naturali.

      1. Uscire dal normotipo per entrare nell’universalità (cosa che ci permette di arricchirci attraverso la differenza ed essere contributori verso un risultato comune)
      2. Valorizzare la complementarietà (dove i punti di forza degli uni compensano le debolezze degli altri vicendevolmente)
      3. Attivare ogni cellula del sistema (per sviluppare leadership diffusa e decisione specializzata)
      4. Interconnettersi e cooperare (per generare e implementare soluzioni, sia adattive che anticipatorie, capaci di garantire longevità)

      Le nuove normative e le iniziative che ci stimolano a costruire politiche del personale orientate alla valorizzazione della differenza in una logica inclusiva sono quindi un’importante opportunità per stimolare l’evoluzione delle nostre organizzazioni verso forme ecosistemiche resilienti, produttive e sostenibili nel tempo.

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    • Esiste il giusto mindset?

      Tipi di consulenze: esiste il giusto mindset per affrontare un percorso?

      Rispondiamo subito alla classica domanda che ci si pone quando si parla di tipi di consulenze sia in ambito aziendale che personale.

      Effettivamente esiste un giusto mindset per fronteggiare bene questo percorso.

      Il modo in cui noi approcciamo la strada del cambiamento, che di fatto è quello a cui porta un percorso di consulenza, fa la differenza nel raggiungimento o meno del nostro risultato.

      Quando si avvia un percorso di consulenza, possiamo affidarci a quello che riteniamo il miglior professionista o realtà aziendale in quell’ambito, ma se non ci mettiamo noi del nostro è veramente difficile riuscire ad ottenere i risultati che si perseguono.

      Che cosa è il mindset e come impatta sulla consulenza

      A prescindere quindi dai vari tipi di consulenze, il mindset è la chiave per il successo.

      Rappresenta lo stato mentale in cui si trova un individuo e che è il frutto dell’insieme delle convinzioni e credenze che il soggetto ha sviluppato nel corso della propria esperienza di vita.

      Attraverso questa forma mentis ognuno legge il contesto in cui è inserito, gli eventi, prende decisioni, fa scelte in una direzione piuttosto che un’altra.

      Già nel nostro articolo sull’innovazione aziendale avevamo visto quelli che sono i due principali mindset che si osservano in generale nelle persone: il fixed o il growth.

      Chi ha uno stato mentale growth è più orientato ad affrontare efficacemente e a utilizzare al meglio tutte le potenzialità in un percorso di consulenza.

      Va detto che nel nostro approccio il mindset è l’elemento centrale su cui lavoriamo quando facciamo consulenza, sia che si tratti di un business coaching sia che si tratti di lavorare su aspetti strategici.

      Come sviluppare il mindset giusto per far fruttare la consulenza

      Lavoriamo prima di tutto sul creare un sistema di credenze e convinzioni che siano supportive e funzionali rispetto al cambiamento o al miglioramento che stiamo perseguendo.

      Possiamo proprio dire che lavoriamo con i nostri clienti affinché si crei il mindset adeguato ai risultati che si vogliono raggiungere.

      Oltre a operare su nuove convinzioni, portiamo l’attenzione anche su alcune caratteristiche che cerchiamo di rinforzare, al fine di alimentare il nuovo mindset con azioni funzionali allo stesso.

      Questo permette ai nostri clienti di raggiungere i risultati, ma anche e soprattutto mantenere un atteggiamento orientato al miglioramento e alla ricerca del modo in cui portare valore.

      In sintesi, le caratteristiche che sollecitiamo e che a nostro avviso sono le basi proprio di una ricerca di miglioramento continuo sono:

      • Senso di responsabilità, rispetto alle scelte, decisioni e azioni che realizzano

      • Ricerca del feedback costruttivo che può dargli indicazioni rispetto a come migliorare

      • Curiosità e attenzione verso ciò che è diverso

      • Focalizzazione rispetto agli obiettivi

      • Atteggiamento positivo verso l’errore, perché parte del processo di apprendimento e può rappresentare una opportunità

      • Resilienza, per non abbattersi di fronte a difficoltà o errori.

      Tra i tipi di consulenze che conosciamo c’è quello nostro, che è unico nel suo genere.

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    • Cosa fare di fronte ai momenti di crisi

      Cosa fare di fronte ai momenti di crisi – il decalogo dell’azienda sana

      Veri e propri momenti di crisi, ecco le principali difficoltà che affrontano le aziende

      Le aziende e le persone nei momenti di profonda ed imprevista crisi, vedi quanto accaduto con la situazione pandemica che stiamo ancora attraversando, si trovano in difficoltà ad ottenere gli stessi risultati mantenendo semplicemente gli stessi comportamenti.

      Di fronte a questi momenti di crisi le aziende possono sperimentare una o più di queste principali difficoltà:

      1. CADUTA DELLA DOMANDA, ovvero RIDUZIONE DEI RICAVI (ordini, vendite).
      2. CADUTA DELLA PRODUZIONE, ovvero incapacità di produrre i beni/servizi da vendere oppure un AUMENTO DEI COSTI (di gestione, acquisto, inefficienze, ecc.).
      3. Percepiscono una CADUTA DELLA PRODUTTIVITA’, ovvero dell’efficienza di processi e persone con relativa RIDUZIONE DELLA MARGINALITA’

      Va sottolineato che ogni azienda sperimenta in modo differenziato queste 3 difficoltà e conseguentemente percepisce diversamente quale sia o siano le priorità su cui ha bisogno di intervenire e per questo motivo va ascoltata e guidata successivamente ad agire secondo le proprie priorità.

      Inoltre, in queste situazioni si crea uno stato di reazione che è caratterizzato da 3 elementi cruciali:

      1. Vi è una condizione/stato di CONFUSIONE, determinato dall’assenza di una chiara e lucida visione sul contesto, sul futuro e sui comportamenti adeguati da mettere in atto
      2. Vi è un generico SENSO DI URGENZA che li mette in ansia. Si ritiene di non aver tempo per pensare e valutare adeguatamente «tutti gli elementi»
      3. Avvertono la necessità di SOLUZIONI immediate magari con un avanzamento rapido. È indispensabile fare velocemente qualcosa… ma cosa?

      Reazioni ai momenti di crisi

      In questo contesto non sanno di cosa e chi fidarsi. Tendono dunque a reagire, con diversi gradi di intensità, tra 2 comportamenti opposti:

      • Rimanere «FROZEN», congelati, e non fare niente o ripetere meccanicamente quanto funzionava nel contesto precedente.
      • Entrare in IPERATTIVITA’ VUOTA, ovvero fare qualsiasi cosa senza la minima effettiva consapevolezza di un nuovo legame azione-risultato. Di fatto sprecando energie preziose e procurando ulteriore confusione.

      In entrambi i casi, il disorientamento porta a prediligere SOLUZIONI TANGIBILI, nell’illusione che tangibilità corrisponda ad efficacia.

      I bisogni a cui cercano risposta

      In sintesi le aziende e le persone che le guidano hanno dunque dei bisogni a cui cercano risposta che sono principalmente:

      1. Un MODELLO DI RIFERIMENTO semplice e condivisibile
      2. Una GUIDA «FIDATA», di cui hanno dunque fiducia ma che non li faccia sentire «incapaci» o «followers» quando invece preferiscono mostrarsi leaders.
      3. Strutturare un pensiero «A SCENARI» poiché in un mondo di incertezza il pensiero a procedure non può funzionare.
      4. Azioni CONCRETE, per percepire che si è attivi, anche solo per un movimento verso il positivo.
      5. Azioni FACILI*, perché nei momenti di emergenza non si riesce a dedicare energie ad apprendimenti complessi.
      6. Risultati RAPIDI ed EVIDENTI, per percepire che ciò che si fa porta veramente risultato.
      7. Soluzioni ACCETTABILI dal modello culturale del cliente, ovvero CONTIGUE! Nei momenti di emergenza, il carico di incertezza spesso non concede energie per sperimentare anche nuovi mindset

      * Facile è «ciò che si sa già fare abbastanza», Difficile è «ciò che non si sa ancora fare»

      Un modello di revisione che risponda ai bisogni nel breve

      Ora qualsiasi azienda, team o individuo ottiene i propri risultati attraverso l’interazione tra 3 PILASTRI originari:

      1. Dei MODELLI «organizzativi», ovvero il modo in cui il soggetto (azienda, team, individuo) organizza le idee/attività/…
      2. Le TECNOLOGIE o TECNICHE che usa per operare
      3. Le PERSONE che tali modelli e tecnologie usano.

      In una situazione di stabilità il MIX delle 3 componenti è probabilmente ben definito, testato, efficace ed efficiente. Ma in un contesto di repentino cambiamento il MIX consolidato si dimostra assolutamente inefficace ed inadeguato.

      Diventa necessario dunque attivare un PROCESSO DI REVISIONE che sia SNELLO, RAPIDO ma soprattutto a «A TUTTO TONDO» che rispetto ai 3 pilastri chiave e che metta a fuoco cosa può essere fatto in modo diverso per essere più efficaci. Si parte dall’analisi di cosa si faceva nella fase pre crisi e poi si immagina cosa potremmo fare e come potrebbe essere fatto in modo da delineare velocemente azioni da mettere a terra e verificare per riorientarsi con efficacia.

       

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    • le domande da farsi per renderle realtà

      STRATEGIE AZIENDALI VINCENTI: le domande da farsi per renderle realtà

      Scene di ordinaria vita aziendale

      Il copione è molto diffuso: si definiscono obiettivi, si progettano strategie aziendali vincenti che sulla carta sono veramente efficaci, si investono risorse e tempo, si pianificano riunioni…e poi? E poi ci si ritrova a fare un bilancio e ci si accorge di due scenari possibili:

      • che quanto definito in strategia spesso fatica ad essere implementato nella pratica e si mancano i risultati sperati,
      • oppure che la strategia viene implementata in parte e faticosamente, in modo sconnesso e non allineato.

      Questa dinamica ti sembra familiare vero?

      Effettivamente è costume diffuso e confermato anche da studi internazionali.

      Ben il 50% delle strategie aziendali non vengo implementate e rimangono solo efficaci sui documenti che la contengono.

      Ci sono molti articoli, ricerche e studi che forniscono utili elementi per definire con precisione criteri e linee guida per elaborare le migliori strategie aziendali vincenti per implementare un business, crescere in un determinato Mercato.

      Al tempo stesso ci sono alcune delle migliori società di consulenza internazionali che hanno come focus proprio la consulenza sulle strategie aziendali vincenti e non solo.

      Hanno aiutato e continuano a fornire input fondamentali alle aziende per trovare la strategia vincente nel loro business.

      Differenze tra business, cosa conta realmente in una strategia aziendale

      Ma allora quale è la differenza, che fa la differenza? Perché alcune riescono veramente a realizzare le strategie ed altre, più della metà, fanno fatica e sono in perenne rincorsa?

      Quello che abbiamo visto e sperimentato concretamente con i nostri clienti in questi 25 anni è un fenomeno molto diffuso.

      Spesso si sottovalutano degli aspetti fondamentali che non sono legati direttamente ad elementi specifici della strategia ma proprio a come tutta l’organizzazione a partire dalla sua “mente” si muove verso e per la sua realizzazione.

      Quando si lanciano nuove strategie si avviano processi di cambiamento che sono in continua evoluzione ed è importante che le persone sappiano riorientarsi costantemente per operare con agilità verso i nuovi risultati.

      Nella nostra esperienza di consulenza abbiamo messo a fuoco alcune domande importanti.

      Grazie a queste sviluppiamo una riflessione con le direzioni che permette di mettere a fuoco lo stato presente e individuare i gap da presidiare per portare veramente a terra una strategia aziendale vincente.

      Qui di seguito vi mettiamo alcune di queste domande perché potrebbero aiutarvi a mettere a fuoco quali sono le condizioni da cui parte la vostra realtà e quali potrebbero essere degli snodi critici da gestire con efficacia per far si che tutta la vostra azienda si muova in armonia:

      Le domande importanti e vincenti da farsi e fare:

      • Esiste una Visione aziendale che sia espressa chiaramente, nota e compresa?
      • La strategia è stata co-costruita e condivisa? I risultati da raggiungere sono chiari e ben comunicati? Le persone sono motivate nel raggiungerli e/o hanno chiaro quali saranno le conseguenze del non conseguimento?
      • I Manager sono capaci di spiegare il “perché” delle richieste che fanno alle persone?
      • Le persone si sentono responsabili di sostenere concretamente l’azienda attraverso il raggiungimento dei risultati?
      • Vi è una cultura del dialogo e del feedback continuo?

      Attraverso queste e altre domande, noi aiutiamo i nostri clienti a creare e mantenere le condizioni necessarie a portarli verso le mete che si sono prefissi.

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    • Innovazione aziendale

      INNOVAZIONE AZIENDALE – Il ruolo fondamentale del Growth Mindset Leader

      Nel corso della sua carriera ventennale, la docente di psicologia della Stanford University, Carol Dweck, ha scoperto che una delle nostre convinzioni più radicate riguarda il modo in cui vediamo le abilità.

      Nello specifico, durante i suoi studi, la Dweck ha individuato due tipologie di mentalità funzionali anche per l’innovazione aziendale:

      La mentalità statica (“fixed mindset”).

      La mentalità dinamica (“growth mindset”).

      Perché ve ne parliamo?

      Perché nella nostra esperienza abbiamo visto che le persone e le aziende che sollecitano e agiscono con una mentalità dinamica generano sempre maggiore innovazione aziendale, al loro interno come nel Mercato in cui operano.

      L’avere una mentalità dinamica significa sapere che non si nasce innovatori ma che è una abilità e che può essere allenata e rafforzata.

      Pertanto in questa logica il sistema crea le condizioni perché ciò avvenga.

      Ma vediamo un attimo meglio come si caratterizza il Growth Mindset per l’innovazione aziendale:

      • Chi ha una mentalità dinamica è convinto che non esistano abilità innate e che una pratica costante sia l’unica strada per far fiorire il nostro reale potenziale.
      • Una persona/sistema con “growth mindset” accetta gli inevitabili fallimenti e li utilizza come alleati, come sprone per raddoppiare gli sforzi e come guida per correggere il tiro e provare nuove strategie e nuove strade.
      • Chi ha una mentalità dinamica crede nella “filosofia del duro lavoro” e considera il successo come la naturale conseguenza del proprio impegno.
      • L’obiettivo è stimolo e il successo non è la meta ma altro trampolino per il prossimo passo

      Questi punti creano le condizioni primarie per alimentare e sostenere processi di innovazione aziendale.

      E’ quindi importante che i ruoli di guida e manageriali di un’azienda che vuole fare innovazione aziendale o continuare a fare innovazione, abbiano loro stessi questo mindset e creino le condizioni per incentivarlo.

      Innovazione aziendale, il bisogno di un Growth Mindset Leader che:

      1. Abiliti la possibilità di sperimentare e la libertà di sbagliare:l’errore è parte integrante del processo di apprendimento”
      2. Condivida gli obiettivi con il proprio team: la nuova leadership non si basa più sull’autorità e sulla capacità di rispondere a obiettivi predefiniti. Gli obiettivi stessi si raggiungono con dinamiche di gruppo, tarandoli di volta in volta, in modo agile, a seconda delle situazioni che emergono durante il percorso
      3. Incoraggi i collaboratori a:
      • fare un’analisi accurata quando gli obiettivi non sono stati raggiunti
      • capire come agire in modo migliore e diverso in futuro
      • comprendere come hanno superato i dubbi e le sfide passate
      • interpretare come le esperienze passate possono essere applicate alle sfide attuali
      1. Faccia emergere le idee: crea spazi di ascolto per individuare le potenzialità dei collaboratori, valorizza e mantiene elevate le aspettative di ognuno di loro, aiutandoli a crescere professionalmente e favorendo la nascita di idee innovative
      2. Promuova una cultura del Discomfort: sviluppa piani di azione e di crescita per sè e per il team (esperienze nuove – formazione – nuovi progetti). Chiarisce e condivide le sfide che il team dovrà affrontare
      3. Crei spazi di riflessione in cui i membri del team possono far emergere le loro preoccupazioni sulle sfide in cui sono coinvolti e condividere liberamente le loro esperienze
      4. Monitori le azioni per divulgare una cultura del feedback continuo: l’attuazione e il monitoraggio del piano d’azione, permette di progredire nei progetti attraverso lo scambio continuo di feedback
      5. Racconti storie di successo e insuccesso, per condividere strategie e alimentare il senso di responsabilità e crescita condivisa
      6. Celebri i successi per condividere i progressi del team
      7.  Comunichi con l’esempio – Dimostrare tutti i giorni che la determinazione, l’apertura al cambiamento, la volontà di collaborare e crescere sono requisiti chiave per la crescita.
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    • perché è importante svelare il lato umano

      Business coaching: perché è importante svelare il lato umano delle aziende

      Motivazione e convizioni: elementi per un reale successo del coaching

      Il business coaching è un potente metodo di sviluppo che può aiutare i manager nella loro evoluzione sia umana che professionale.

      E’ un percorso per migliorare, dove la motivazione intrinseca ha un grande valore e gioca un ruolo chiave per il successo dello stesso.

      Ma come si genera e soprattutto come si alimenta questa motivazione intrinseca?

      Toccare le leve motivazionali giuste è molto importante, per far sì che il manager mantenga il focus e si attivi concretamente nel percorso di sviluppo. 

      Richiede, inoltre, che in fase di avvio del lavoro venga definito bene il senso ultimo che il manager vuole dare al proprio percorso di evoluzione.

      Occorre fare questo per  individuarne gli snodi cruciali su cui potrebbe attivare azioni di autosabotaggio.

      Gli snodi cruciali rappresentano gli elementi chiave su cui far emergere un primo livello di consapevolezza nel manager, rispetto a quelli che possono essere per lui degli ambiti di test della effettiva motivazione. 

      Ancor di più possono essere aspetti che permettono al manager stesso di far emergere eventuali convizioni limitanti rispetto ad agire comportamenti nuovi.

      Il business coaching ha come obiettivo ultimo quello di accompagnare il manager verso un miglioramento specifico.

      Serve a centrare il lavoro anche sulle convinzioni che si è sviluppato e che possono ostacolarci e rappresenta un passaggio chiave del percorso per realizzare concretamente il cambiamento desiderato.

      Si tratta di un viaggio con tante tappe che porta a costruire un percorso che si evolve e si trasforma grazie ai diversi apprendimenti che vengono sviluppati.

      È un viaggio che permette a chi lo fa di prendere consapevolezza degli aspetti umani e professionali che gli altri vedono in noi e che noi magari non realizziamo.

      Esplorare le convizioni per generare la trasformazione

      In questo viaggio è importante sicuramente lavorare sui comportamenti osservati ma ancor di più, e forse prima, è importante lavorare su livelli diversi, su quei livelli sottili che possono aiutare il manager a rilevare delle proprie caratteristiche profonde.

      Sono proprio queste caratteristiche che generano l’energia.

      Per questo motivo si lavora sulle convinzioni profonde che ognuno ha, per svelarle, riconoscerle ed entrarci dentro.

      Solo lavorando su livelli diversi si può sbloccare quel lato umano importante per avere un impatto sui risultati di business

      I risultati di business di fatto generati anche da atteggiamenti e comportamenti, spesso sfuggono alla consapevolezza di chi li attua.

      Per questo il business coaching è importante. 

      Aiuta proprio a fare questo: a disvelare, prima di tutto al manager, quali sono i livelli più sottili che impattano nel business.

      Connessione tra dimensione umana e tecnica

      Rendere visibile al manager queste dimensioni è la chiave di volta verso il cambiamento. 

      La trasformazione è un passaggio fluido che porta alla vetta più alta: quella che genera una trasformazione profonda.

      Il lato umano dei manager è stato per tanto tempo considerato non influente per la performance, anzi si è cercato di tenerlo fuori dalle aziende!

      Ma fortunatamente oggi grazie a numerosi studi abbiamo la possibilità di riconnettere le parti: quella umana emotiva e quella specialistica tecnica.

      Noi di Hermes abbiamo da sempre considerato questa prospettiva completa e su questo paradigma abbiamo lavorato con i nostri manager: non disgiungendo le parti ma connettendole nel loro valore.

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    • Progetto di formazione lavoro

      ACTION OUT OF THE BOX – Progetto di formazione lavoro per accrescere sinergie e collaborazione

      Da verticale ad orizzontale: cambiare le modalità di lavoro

      WOW!! Questo è stata l’esclamazione da parte del cliente ma anche e soprattutto da parte del suo team a conclusione di questo progetto di formazione e lavoro costruito con logiche e modalità distruptive per l’ambiente in cui è stato realizzato.

      Ed è stato proprio l’elemento distruptive che ha permesso di portare a casa il risultato che il cliente chiedeva.

      La sua richiesta era mirata: una trasformazione nelle logiche lavorative che portasse l’azienda a spostarsi da un modello fortemente verticale verso un modello più orizzontale.

      Alla base c’era la volontà di sviluppare logiche più cooperative volte a generare una importante sinergia nel sistema.

      La sfida è stata entusiasmante per il contesto in cui opera questa realtà e l’ambiente aziendale erano caratterizzati da personalità molto forti con qualche resistenza a mettere in discussione quello che stava di fatto comunque funzionando.

      Un ambiente sperimentale che destruttura le logiche quotidiane

      L’architettura di questo progetto di formazione e lavoro ha previsto la costruzione di un ambiente sperimentale.

      Si sono annullati i ruoli reali e le gerarchie ufficiali, agendo diversamente dal normale.

      Abbiamo coinvolto in maniera diversa più livelli aziendali per ingaggiarli fortemente verso modalità cooperative di funzionamento.

      Cosa abbiamo visto accadere nel progetto di formazione e lavoro:

      • tutti hanno giocato dei ruoli completamente diversi, una partita diversa, e hanno lavorato su temi diversi rispetto a quelli di loro presidio professionale
      • le stesse azioni progettuali riguardavano perimetri di contenuti completamente diversi da quelli che maneggiano quotidianamente
      • sono emerse una serie di caratteristiche, di potenzialità, che erano anche inespresse, quindi c’è stata la possibilità di far emergere tutte le risorse delle persone, al di là dei pregiudizi abituali e vederle agire
      • è aumentata la visione a 360° gradi del sistema azienda e le persone hanno implementato nuove competenze
      • il linguaggio del noi è fortemente cambiato, le persone si sono avvicinate, hanno capito cosa fanno, quali sono i mestieri, che cosa fanno i colleghi e come lo fanno. Si sono guardati veramente in un modo nuovo oltre, chiaramente, a portare a termine in maniera molto concreta dei progetti che erano strategici per l’organizzazione

      Portare le persone ad agire fuori dal proprio perimetro di riferimento ha permesso la sperimentazione concreta di uscire dalla confort zone.

      Ha generato un risultato eccezionale in termini di riorientamento di tutto il sistema verso una modalità operativa più singergica del quale siamo più che orgogliosi.

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    • è già stato detto tutto?

      Sviluppo del personale: è stato già detto tutto?

      Le ragioni per cui ci si approccia al tema dello sviluppo del personale in azienda sono molteplici.

      Su questo argomento è stato scritto di tutto e di più, che ovviamente si declina in tante sue varianti contenutistiche legate ai bisogni a cui risponde: recruiting, reskilling, gestione risorse, etc.

      Qui ne approfondiamo il significato con uno sguardo rivolto alla strategia entro cui si collocano le molteplici azioni legate allo sviluppo del personale.

      Lo sviluppo del personale strumento principe per le Direzioni HR

      Lo sviluppo del personale in azienda è una delle funzioni principali delle Direzioni Risorse Umane delle aziende, tanto che di solito vi è un’area dedicata specifica.

      Per essere realmente generatrice di valore per l’azienda questa funzione dovrebbe, a nostro avviso, muoversi in una logica fortemente orientata al sostegno delle aree di business.

      Sostenere il business: ma come farlo veramente?

      Punto principale è quello legato alla chiara consapevolezza e introiezione del purpose aziendale e delle strategie sviluppate dal Team di Direzione.

      Di fatto dovrebbe poi muoversi in linea con le strategie generando anch’essa pensieri e disegni strategici funzionali a sostenere la crescita e lo sviluppo del business, operando concretamente al loro fianco, anticipandone i bisogni e costruendo risposte funzionali ed adeguate.

      Lo sviluppo del personale in azienda dovrebbe essere non solo pensato connesso alle strategie, ma anche e soprattutto diretto alla loro implementazione.

      Per farlo bisogna creare percorsi, corsi, eventi e iniziative volte ad accrescere le skills e le abilità necessarie alle persone per portare valore e generare valore.

      Di fatto, in questa logica, lo sviluppo rappresenta lo strumento a sostegno del cambiamento e della realizzazione concreta.

      Dovrebbe anche, per essere vicino al business, esprimersi in azioni e percorsi da un lato agili, ma anche “trasformativi”.

      Ogni intervento dovrebbe essere volto a connettersi concretamente a creare un cambiamento reale nel modo di operare delle persone.

      Il trasformative learning come strumento a sostegno dello sviluppo

      Per noi occuparci con i nostri clienti di sviluppo e supportarli nella realizzazione di questo obiettivo, significa proprio produrre e sostenere il cambiamento reale.

      In questa logica abbiamo creato una metodologia peculiare che è il trasformative learning e che sta alla base della nostra azione.

      Con questa metodologia lavoriamo per generare una trasformazione in termini non solo di competenze, ma soprattutto di mindset, energia e motivazione.

      Come lo facciamo vi chiederete?

      Semplicemente così:

      • Creiamo contesti di apprendimento più facili e fluidi, che permettono alle persone di mettersi in discussione senza sentirsi giudicati, per aprirsi a nuovi modi di pensare.
      • Sviluppiamo percorsi che permettono di acquisire nuove convinzioni e quindi un nuovo mindset.
        Questo favorisce il superamento di quei blocchi interiori che impediscono alle persone di tirare fuori il meglio di sé e quindi portare davvero valore.

      In conclusione, generiamo esperienze che sappiano coinvolgere e che accendano la volontà e la determinazione ad esprimere il proprio valore.

      Ciò è per noi cruciale per garantire davvero i risultati e far sì che ci sia un reale sviluppo del personale in azienda.

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    • Chiave per implementare le strategie

      La Consulenza strategica: chiave per implementare le strategie

      Cosa intendiamo per consulenza strategica

      Per Hermes fare consulenza strategica vuol dire offrire una prospettiva di lettura della realtà organizzativa e degli snodi chiave esistenti, diversi da quelli identificati dall’interno dell’organizzazione.

      Questo serve per analizzare quelle aree di criticità sulle quali è importante intervenire per permettere di raggiungere i risultati.

      Cosa è una strategia aziendale e come la supportiamo con la nostra consulenza strategica

      Nella consulenza, uno degli aspetti prioritari che analizziamo è la strategia aziendale per comprendere bene qual è la direzione verso cui l’azienda si sta muovendo.

      Ma vediamo meglio questo aspetto.

      Una strategia aziendale rappresenta la direzione e gli obiettivi che un’organizzazione persegue nel lungo periodo e che gli permettono di raggiungere un vantaggio competitivo.

      La strategia che ogni realtà sceglie definisce le risorse e mezzi di cui dispone per soddisfare le esigenze dei mercati e quelle degli azionisti.

      Spesso queste strategie trovano difficoltà ad essere realizzate, nonostante vi sia un ottimo disegno organizzativo, siano presenti efficaci modelli applicativi e processi e ruoli definiti.

      Questo succede se oltre al disegno futuro non si è analizzato con efficacia lo stato presente in cui si trova l’organizzazione e non si sono messi a fuoco gli snodi cruciali su cui intervenire per fluidificare il passaggio all’implementazione della strategia.

      Ecco è qui che interveniamo come consulenti strategici.

      La nostra azione di consulenza si delinea nel sviluppare un analisi e co-disegnare con il cliente un piano a sostegno dell’implementazione delle strategie che portano i risultati.

      Noi lavoriamo per connettere tutte le componenti del sistema aziendale che agiscono per mettere a terra le strategie.

      E come lo facciamo? Condividendo chiarezza di visione, ingaggio sul senso (perché), ascolto dei dubbi, accoglienza dei feedback, generazione di contributi per costruire le azioni ed i comportamenti che generano i risultati di tutti.

      In un processo di cambiamento,  “vedere” i risultati è importante perché permette di sviluppare e consolidare la fiducia e la generazione di energia.

      Tuttavia, per raggiungere risultati solidi e duraturi nel tempo è importante dare spazio a momenti di consolidamento. In questo modo si può generare quella energia e quelle connessioni solide che servono alla realizzazione di obiettivi strategici

      Partnership e co-costruzione

      In questo percorso di sostegno per noi è importante che si realizzi una partnership forte, solida e fiduciosa per permettere di vedere quello che c’è e di accogliere le prospettive diverse che porta la consulenza.

      Nello sviluppo della nostra consulenza noi accompagniamo i clienti in percorsi di co-costruzione delle azioni e dei processi che permettono quei cambiamenti giusti ed adatti per le persone e per i risultati.

      Nei nostri percorsi non ci sostituiamo ai manager ma li affianchiamo offrendo la nostra vista e le ipotesi di soluzione.

      Siamo consapevoli che il cambiamento non è un percorso lineare, facile e immediato ed è proprio per questo che in questi 20 anni abbiamo creato approcci e strumenti che accelerano il processo e i cui driver comuni d’azione sono:

      • allineare

      • condividere

      • partecipare

      • sperimentare

      Attraverso questi driver riattiviamo l’energia delle persone costruendo e alimentando un circolo virtuoso di collaborazione e sostegno reciproco che si riflette positivamente su tutto il sistema azienda.

      Implementare strategie per noi significa permettere a tutte le persone, di essere partecipi del processo, contribuendovi e appropriandosene. Questo equivali a permettergli di dare veramente il proprio contributo alla realizzazione dei risultati, generando benessere ed energia.

      Perché la consulenza strategica efficace non è quasi mai una questione di tempo

      Per realizzare concretamente una strategia e andare verso una nuova direzione, è importante che i risultati siano visibili nel breve e medio periodo.

      E’ altresì importante avere chiaro che il risultato stabile ha bisogno di tempo, perché nel momento in cui si lavora per connettere, per generare nuove energie, per vedere prospettive diverse il tempo ha bisogno di generare solide basi che possono produrre solide nuove strade.

       

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    • i principi che guidano la nostra società di consulenza

      Hermes Consulting: i principi che guidano la nostra società di consulenza per farti vincere le sfide

      No, non siamo la solita Società di Consulenza: sai perché?

      Perché agiamo concretamente su quello in cui crediamo fermamente. La professionalità della nostra società di consulenza è il frutto di tratti culturali comuni tra i nostri professionisti.

      Questi tratti sono la struttura portante attraverso la quale perseguiamo ogni giorno la Mission di Hermes cioè: amplificare il contributo delle persone.

      Questi i tratti che muovono la nostra azienda:

      1. Diamo l’anima per imparare ed essere sempre all’avanguardia.
      2. Hermes è una palestra a cielo aperto in cui sviluppiamo noi stessi e i nostri clienti.
      3. Il nostro approccio è la respons-abilità, ovvero la capacità di rispondere in modo proattivo ed intraprendente ad ogni situazione con creatività, energia, competenza e cura.
      4. Per noi le persone sono il fulcro di ogni organizzazione, nella loro capacità di ascoltare, valutare, agire. Le emozioni in particolare sono fonte di energia che va riconosciuta, sostenuta e canalizzata.
      5. Fare la differenza è il nostro mantra. Negli obiettivi, nelle modalità, nell’attenzione alle sfumature e alla valorizzazione delle persone.
      6. L’errore e il feedback critico per noi sono fonte inesauribile di opportunità di miglioramento. Li leggiamo e li trasformiamo in spunti concreti di arricchimento.
      7. Un modello di lavoro strutturato, ben organizzato e periodicamente rinnovato è la base ideale per poter poi esprimere il talento individuale.
      8. Le differenze ci aiutano ad arrivare a meta.

      Il nostro modello strutturato

      Ed è grazie al modello strutturato di azione e ai diversi metodi specifici che con i nostri clienti operiamo per potenziare l’energia nel sistema e facilitare la cooperazione e la crescita.

      Come abbiamo già detto in precedenza lavoriamo sulle dimensioni sottili delle persone e sappiamo prendercene cura con la maestria necessaria ed abbiamo sviluppato delle metodologie specifiche e degli strumenti che lavorano in tal senso.

      Un esempio su tutti è quello dell’Outdoor Culturale®, che attraverso la metafora dell’arte (con visite culturali a musei, gallerie d’arte, giardini, città, etc…) accompagna le persone in un viaggio potenziante, che innesca e favorisce lo sviluppo individuale e del team.

      Se hai voglia di saperne di più sulla nostra società di consulenza ti invitiamo a cliccare qui dove potrai approfondire alcuni degli ambiti in cui interveniamo ma anche i metodi che utilizziamo.

      Se invece hai un bisogno specifico e vuoi capire se siamo la realtà che può supportarti con la nostra consulenza puoi scriverci qui.

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    • come fare la differenza

      Organizzazione aziendale: come fare la differenza e amplificare i risultati di business con Hermes Consulting

      Cosa muove questa organizzazione aziendale

      Lavorando nell’ambito dell’organizzazione aziendale, siamo convinti che questo mondo sia un luogo meraviglioso in cui le persone possono fare la differenza per viverlo, curarlo e migliorarlo con una prospettiva di felicità e sostenibilità.

      Chi siamo

      Da 25 anni accompagniamo le persone e le Aziende in processi di cambiamento, favorendone il potenziamento e la crescita sia personale che nel ramo dell’organizzazione aziendale.

      Lo facciamo basando le nostre azioni, i nostri progetti e il nostro modello operativo sull’amplificazione del contributo di ogni persona verso il raggiungimento dei risultati.

      Catalizziamo energie e risorse presenti, fornendo strumenti per aumentare la loro efficacia.

      Per affrontare con successo le sfide che ci vengono proposte, utilizziamo metodi specifici per potenziare l’energia nel sistema, la relazione, la respons-abilità e le competenze nelle persone.

      Siamo un gruppo di oltre 50 professionisti, consulenti senior, coach certificati, psicologi con un team di supporto che opera dalla nostra sede di Firenze.

      Lavoriamo a stretto contatto con le Direzioni e con la Funzione HR, in una logica di partnership reciproca,

      In questo modo riusciamo a costruire attività su misura con il contesto aziendale e con le richieste del mercato.

      Come operiamo

      L’approccio di fondo, che accomuna i nostri progetti e che negli anni ha dato prova della sua efficacia, si costruisce su delle metodologie che permettono alle persone di lavorare su più livelli:

      1. focalizzazione delle persone sulla strategia e organizzazione aziendale e i risultati concreti da sviluppare, nel loro ambito di lavoro;
      2. potenziamento degli aspetti motivazionali e delle competenze personali, per interpretare più efficacemente il proprio ruolo;
      3. rafforzamento delle relazioni, dell’engagement e del lavoro di squadra, necessari affinché tutto il sistema si muova nella stessa direzione.

      Questo approccio integrato favorisce lo sviluppo di un growth mindset.

      Grazie ad esso le persone, a tutti i livelli, diventano responsabili e consapevoli del loro contributo, per favorire la crescita del contesto in cui operano.

      La nostra esperienza dal 1996 si fonda su ricerche e studi internazionali che confermano, anche con le nuove scoperte delle neuroscienze e la quantistica, la nostra scelta nell’approccio al cambiamento.

      Le dimensioni sottili, profonde e poco coscienti, incidono in modo preponderante.

      Lavoriamo sui livelli sottili del funzionamento umano, affinché tutte le persone possano acquisire e sviluppare le migliori competenze per muoversi nel cambiamento.

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    • La scommessa generazionale in azienda

      Age Diversity Management: La scommessa generazionale in azienda

       

      Come sappiamo, le aziende debbono confrontarsi con il fenomeno particolare della compresenza di quattro generazioni attive. Un tema non certo recente, perché data da diversi anni. Eppure, forse anche a causa degli eventi del 2020 e dell’impatto che questi hanno generato sulle persone, il tema è di grande attualità.

      Ma vediamo di cosa si tratta.

      Innanzitutto – senza avere pretese di generalizzazioni, e posto che ci possono essere classificazioni con interpretazioni leggermente differenti l’una dall’altra – può essere utile una visione di sintesi.

      Baby Boomers            nati tra il 1946 e il 1965 (55 – 65 anni)

      Generazione X            nati tra il 1966 e il 1985 (35 – 54 anni)

      Generazione Y            nati tra il 1986 e il 1995 (25 – 34 anni)

      Generazione Z            nati tra il 1996 e il 2005 (15 – 25 anni).

      Baby Boomers
      Vengono chiamati così poiché sono nati in un momento di esplosione delle nascite. Si tratta di una generazione che ha vissuto il ’68, i grandi movimenti sociali e di pensiero degli anni ’70. Hanno una cultura trasformativa e generativa, poiché da giovani credevano che il futuro sarebbe stato migliore del presente e sentivano di contribuire a crearlo. Hanno una forte spinta verso la partecipazione, la realizzazione di qualcosa che dia senso alla loro carriera, desiderano sapere che lasciano una loro impronta, un’eredità “utile” alla comunità.

      Generazione X
      Più flessibile, sensibile ai cambiamenti, con una mentalità influenzata dall’avvento della globalizzazione. Sono ambiziosi, hanno una forte tensione verso il proprio sviluppo professionale e il raggiungimento degli obiettivi di carriera che si sono prefissati, altrimenti sentono il peso del tempo che passa, entrano in frustrazione e si guardano intorno per capire dove possono collocarsi. Superati i 45 anni, cominciano a temere di essere fuori mercato. Sentono il bisogno di coaching come acceleratore del proprio sviluppo.

      Generazione Y
      Più comunemente definita “Millennials”. Concentrati sul “qui ed ora”, un po’ inquieti e disorientati, hanno bisogno di riappropriarsi di un futuro che pensano sia stato loro “scippato”. In particolare i più giovani sentono di voler apportare dei cambiamenti necessari a migliorare la comunità e il mondo. Ne sono dei segnali la loro attenzione ai temi ecologici e a quelli della corretta nutrizione, il loro stile piuttosto minimalista, il loro ritorno ai valori familiari, talvolta anche in controtendenza rispetto a certi modelli “alternativi” di alcuni genitori. Sentono anch’essi il bisogno di coaching, e anche di mentoring.

      Generazione Z
      Amano essere autodidatti e liberi. Sono focalizzati sul futuro, pur percepito come un’incognita, e sulla dimensione social e digital. Si sentono cittadini del mondo, sono informali e veloci. Poiché sentono la mancanza di punti di riferimento, li cercano nella rete partecipando a community, dove lo scambio fra pari è l’elemento principale. Hanno un approccio “mobile first”: considerano il proprio device tecnologico un loro grande punto di riferimento: per loro il mondo è soprattutto lì. La voce “pensione” è assente dalle loro categorie mentali.

      Guardando questa “fotografia”, l’impressione che si ha è che ogni generazione rappresenti un mondo e, nel vederle tutte insieme, emerge una grande complessità, una condizione che ci è ormai molto familiare. L’altra sensazione è quella di una sorta di modifica cromosomica del mondo del lavoro avvenuta nell’arco di circa 40 anni. La prima generazione è relativamente statica, fidelizzata, identificata con il proprio ruolo, con l’azienda e con il proprio territorio. L’ultima generazione è mobile, non fidelizzabile, sente di doversi spostare da un paese all’altro, da un continente all’altro, è relativamente identificata con le sue community, i network di colleghi e amici. La prima è solida, l’ultima è liquida, come direbbe Zygmunt Bauman.

      E’ la fotografia, anzi, il film dell’evoluzione dei nostri tempi: una destrutturazione progressiva dei contesti aziendali e al tempo stesso una loro estensione nella rete. Una crescente perdita di punti di riferimento, soprattutto se si pensa al futuro. I legami tra la persona e l’azienda sono sempre più labili. C’è una minore dipendenza degli individui da qualcosa o da qualcuno. Un tempo, ricevere una promozione da parte di un capo era una grande emozione, nella certezza che si stava costruendo qualcosa di importante. Oggi di capi ce n’è sempre meno e il rapporto di lavoro somiglia sempre più a una libera professione. L’incertezza domina, ma aumentano la flessibilità e l’autoimprenditorialità.

      Un altro aspetto positivo è che i giovani sanno che debbono stimolare le proprie idee, perché in base ad esse possono costruire il loro ambito di lavoro, quanto meno per il prossimo futuro. Poi domani si vedrà, pronti a intercettare un’altra opportunità. I “super senior” stanno a guardare un po’ disorientati e a volte scandalizzati, scuotono la testa, talvolta un po’ nostalgicamente rispetto a un passato dove c’erano valori “migliori”, intuendo che forse ci sarebbe bisogno di loro ma non sanno come fare e soprattutto chi o cosa li possa valorizzare.

      Certo è che questa diversità, piuttosto che vederla come un tema potenzialmente carico di conflitti, bisogna gestirla e soprattutto valorizzarla. L’integrazione fra le varie generazioni rappresenta un vero e proprio patrimonio che il mondo del lavoro fa fatica a far emergere.

      Qui entra in gioco il tema del Diversity Management. Ad esempio, perché lasciar andare in pensione una generazione che può detenere un interessante know how senza dare prima la possibilità di riversarlo a chi resta? Perché non organizzare delle mini survey per rilevare i bisogni, le aspettative e le proposte delle varie generazioni e quelli reciproci? Come mai non si affiancano i giovani talenti con coach o con mentor esperti, o promuovendo il reverse mentoring, così da farli crescere meglio e più rapidamente? Perché non integrare le varie generazioni facendole dialogare e collaborare? Come fare in modo che ognuno non veda il proprio ruolo come il centro del mondo, non si lavori a compartimenti stagni ma si comunichi efficacemente a livello intergenerazionale? Ecco che la gestione della Diversity generazionale non può che essere Inclusion.

      Ci sono dei punti saldi da cui può scaturire un nuovo mindset:

        • sviluppare la cultura dell’inclusione, dell’ascolto dell’altro e di ciascuna generazione come opportunità di crescita
        • ridurre gap culturali, disallineamenti e pregiudizi, derivanti da differenti prospettive di vita e di lavoro
        • creare alleanza professionale e reciproco apprendimento rispetto a modalità e strumenti di lavoro differenti
        • stimolare la solidarietà, il senso del “Noi” e far emergere i valori comuni
        • migliorare le relazioni interpersonali, di gruppo e interfunzionali, il clima e l’ingaggio
        • creare una cultura del coaching e del mentoring
        • dare visibilità e voce alle persone, al racconto e all’ascolto delle loro storie
        • stimolare la creazione di progetti innovativi e condividere il know how
        • far emergere best practices perché diventino prassi condivise
        • celebrare i casi di successo perché creino una contaminazione positiva.

      La maggior parte di queste prassi possono essere valide anche per altri ambiti della Diversity. Ad esempio quella di genere, o fra persone provenienti da differenti aree geografiche, oppure nel caso di quelle differenze culturali proprie di organizzazioni che hanno gestito fusioni e acquisizioni, dove permane per molto tempo la percezione di avere una o più aziende nell’azienda: mindset, stili, linguaggi, modi di lavorare, che richiedono un impegno comune per attenuare il “lavoro per silos”, generare quel senso del “Noi” tanto importante per la dimensione organizzativa e creare maggiori sinergie.

      Si tratta, non solo di azioni strategiche, ma anche e soprattutto di tante piccole azioni quotidiane, come fare attività in comune, dare supporto per risolvere problemi, informare con una comunicazione circolare, creare appositi spazi per dialogare, dare e ricevere opportunità di apprendimento, offrire occasioni di visibilità, …

      Un impegno importante a discapito dell’efficienza e della produttività? Meno di quanto sembri. Piuttosto, un investimento che può dare un risultato molto elevato, soprattutto in questo momento di grande trasformazione e di distanza forzata, in cui il senso dell’unione si rivelerà strategico. I team possono andare lontano, ma la vera trasformazione la fa l’azienda nella sua interezza. Se ben gestito, è un investimento con una fase iniziale complessa ma poi la strada è in discesa perché le persone, percepito il beneficio diffuso, saranno le prime ad alimentarlo.

      Buon anno, e che la gestione efficace della diversità, l’integrazione, la vera collaborazione possano essere valori agiti nel quotidiano delle persone.

      Scritto da:
      Rossella Martelloni
      Senior Consultant di Hermes Consulting

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    • Informatore scientifico del farmaco

      L’informatore scientifico del farmaco al centro di un sistema integrato di comunicazione


      Il mondo farmaceutico da alcuni anni ha iniziato a sviluppare un 
      sistema di comunicazione multimediale con il medico che, affiancando all’approccio tradizionale l’utilizzo di nuove tecnologie, cerca di rendere più agile e integrata l’attività di informazione medico scientifica.

      Nella la situazione contingente, questi cambiamenti che già erano in fieri, hanno subito una forte accelerazione portando ad una rapida trasformazione dello scenario, che probabilmente troverà espressione anche al termine del momento di crisi attuale.

      L’azienda farmaceutica per potere cogliere questa opportunità di cambiamento dovrà muoversi in modo integrato partendo proprio dai bisogni e dalle preferenze del medico, sviluppando i canali di comunicazioni e realizzando i contenuti più adeguati al singolo interlocutore.

      Per poter vincere questa sfida non è però sufficiente avere piattaforme, strumenti tecnologici e persone adeguatamente trainate, ma è necessario intervenire sull’ organizzazione aziendale in modo che abbandoni una logica di silos e che si diriga verso un funzionamento che metta al centro del proprio sistema di comunicazione il medico con le sue necessità e le sue preferenze.

      Se da un lato occorre agire sui processi interni, esplorare i nuovi canali di comunicazione (follow-up email, social, video call, video conference, ecc.) e sviluppare contenuti adeguati ai diversi punti di contatto, dall’altro è fondamentale lavorare sulla trasformazione del ruolo dell’informatore scientifico del farmaco (ISF).

      L’informatore scientifico del farmaco è e continuerà ad essere il principale punto di contatto con il medico, in un continuo dialogo fondamentale non solo per l’aggiornamento scientifico ma anche per la condivisione di quelle informazioni derivanti dalla pratica clinica che risultano preziose per indirizzare la ricerca medica.

      Affinché un approccio integrato di comunicazione possa funzionare, è quindi indispensabile ricercare un pieno ingaggio dell’Informatore Scientifico del Farmaco quale fulcro e regista delle attività dirette al medico.

      Per accompagnare velocemente l’ISF in questa evoluzione è necessario lavorare su due fronti:

      1. Sostenere gli ISF ad un cambiamento di mindset nell’approccio relazionale, superando credenze limitanti e resistenze insite in un modus operandi consolidato.
      2. Sviluppare quelle competenze tecniche e comportamentali legate all’utilizzo di strumenti digitali e all’agire e vivere la relazione con il medico in modo diverso. 

      Lo sviluppo di un processo integrato di comunicazione può migliorare l’interazione con il medico in termini di qualità e di condivisione di contenuti scientifici, essere un’importante arricchimento professionale per l’ISF sul piano dell’innovazione, rendere più agile e sostenibile (anche da un punto di vista ambientale) l’attività di informazione.

       

      Scritto da:
      Bruno Belvedere
      Senior Consultant di Hermes Consulting

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    • Tra distanza e presenza

      Persone e trasformazione tra distanza e presenza

      Recenti ricerche, tra cui la nostra Smart Working Survey realizzata in collaborazione con l’Istituto Demia, mostrano un’inevitabile correlazione tra la diffusione dell’emergenza sanitaria e l’esplosione dello smart working, passato in brevissimo tempo da fenomeno in qualche modo “di nicchia” a grande fenomeno di massa. Il Politecnico di Milano evidenzia che l’Italia è passata dai 570 mila remote workers agli 8 milioni.

      Con l’arrivo dell’emergenza è accaduto il miracolo: in tempi brucianti, sia le organizzazioni che erano strutturate in tal senso, sia quelle che non erano preparate, si sono attrezzate, facendo in modo che la quasi totalità delle persone iniziasse a lavorare da casa. I nostri dati indicano che solo il 13% delle aziende/enti si è trovato del tutto impreparato, ma comunque la rapidità della risposta è stata di portata notevole. Una vera gestione dell’emergenza, in cui gli HR e le persone si sono superati. C’è di che essere orgogliosi di tutto questo.

      Ed è così che fra disorientamento, perplessità e apprensione, nel periodo del lockdown si sono scoperte molte cose. Innanzitutto, si è presa coscienza delle potenzialità esprimibili quando persone e organizzazione sono allineate rispetto a minacce e obiettivi comuni.

      In secondo luogo, che da casa ciascuno può – sia pur con diverse difficoltà – lavorare rispettando i propri tempi e gestendo nuovi equilibri tra famiglia e lavoro.

      Inoltre, al netto di qualche comportamento opportunistico o manipolativo, è stata garantita la produttività, se non addirittura migliorata, poiché le persone si sono concentrate sui risultati e non sul compito, sull’output finale e non sul tempo impiegato o sull’orario di lavoro.

      Senza contare che l’assenza degli spostamenti quotidiani per raggiungere il luogo di lavoro, la distanza rispetto a certe relazioni conflittuali in azienda, alle pressioni costanti, alle continue interruzioni generate dalla convivenza negli spazi fisici, hanno diminuito lo stress lavorativo.

      Sia pur tra forti resistenze e contraddizioni, la leadership orientata al controllo è spiazzata di fronte al fatto che le persone si possono organizzare con maggiore autonomia e flessibilità. Ed ecco che la delega, connessa alla fiducia, anche laddove scarsamente praticata, diventa una prassi indispensabile.

      Proprio perché più libere, le persone hanno attivato maggiormente le idee, con quella capacità tutta italica di arrangiarsi nell’emergenza e di inventare soluzioni intelligenti per migliorare l’attività quotidiana.

      Inevitabilmente, è esploso anche il fenomeno delle riunioni e della formazione online: durante la settimana si sono avvicendate attività che, pur a distanza, mettono costantemente in relazione le persone, in modo talmente intensivo da richiedere un’ottimizzazione, per non rischiare di diventare esse stesse un fattore di stress. Comunque, la consapevolezza digitale è inevitabilmente aumentata.

      Sono diminuiti certi costi per le aziende e per le persone, sono diminuite le emissioni di CO2 nell’atmosfera, è nettamente migliorato l’inquinamento e i centri urbani hanno beneficiato di una condizione inimmaginabile fino ai primissimi del 2020.

      La situazione di pesante costrizione, che ha fatto di necessità virtù, ha finito per far desiderare il ritorno in azienda. Le ricerche evidenziano che circa il 71% dei lavoratori è a disagio per avere meno occasioni di scambio fra colleghi e più carichi famigliari. Si auspica quindi che il periodo di assestamento vedrà un mix tra presenza fisica e distanza, tra frequentazione degli spazi di lavoro e attività in remoto.

      Secondo la nostra ricerca, l’84% dei manager pensa che l’utilizzo dello smart working proseguirà, e in molti hanno capito che quando l’emergenza sanitaria verrà superata ci troveremo di fronte a uno scenario completamente nuovo, sia in virtù dell’esperienza avviata da decine di migliaia di imprese e milioni di lavoratori, sia soprattutto per un evidente mutamento sociale, politico, economico, culturale e valoriale che ne deriverà.

      Indubbiamente ci saranno risvolti imponenti, innanzitutto perché molte imprese avranno grandi difficoltà a proseguire la loro attività così come configurata fino a qualche mese prima. Il ricorso alla cassa integrazione in atto può rappresentare l’anticamera di provvedimenti più drastici, evocando condizioni di downsizing.

      L’incertezza, l’imprevedibilità e l’instabilità, diventate condizioni immanenti, creeranno scenari che bisognerà saper affrontare con nervi saldi come in ogni momento di grave crisi.

      E visto che le prassi di lavoro saranno per varie ragioni molto diverse da quelle a cui siamo abituati, ciò richiede da subito l’affiancamento e lo sviluppo di manager preparati, solidi ed equilibrati, in grado di traghettare, gestire, far elaborare, anticipare e vivere il cambiamento. Le ricerche ci dicono che le imprese dotate di un innovation manager o di un change manager orientato tanto al mercato quanto alle persone reagiscono meglio ai momenti di eccezionali difficoltà.

      E’ evidente che saper prendere rapidamente le decisioni giuste mantenendo equilibri molto delicati sarà una condizione vitale per non perdere la bussola e navigare in un mare in burrasca.

      Soprattutto, è bene che già da subito le aziende si raccolgano intorno alle persone, pensando a come contenere gli urti e le minacce, facendo attenzione alle ondate di emozioni che pervadono e pervaderanno l’organizzazione. I sentimenti, i bisogni espliciti e latenti, il clima e i valori che garantiscono saldezza e identità costituiranno l’asse portante della gestione di una trasformazione senza precedenti.

      Sarà importante prevedere figure di supporto e affiancamento – siano esse psicologi, counselor o coach – che sappiano accogliere gli inevitabili disagi e disorientamenti delle persone e aiutarle a trasformarli in nuova consapevolezza e capacità di passare all’azione.

      E’ verosimile che la struttura fondante della ricostruzione e del “nuovo corso” sarà fatta di trasparenza, dialogo, confronto, collaborazione, attenzione al Bene Comune, di sentirsi un’unica grande squadra, dell’espressione di una cura, di un supporto e persino di una gestione affettiva delle persone, che forse – proprio per la minaccia di un tessuto sociale lacerato – finalmente potrebbero venire prima degli aspetti finanziari, tecnologici e organizzativi.

      A questo aggiungiamo che la percezione del 50% dei manager è che lo smart working rappresenta un impoverimento nei rapporti umani e professionali. Ciò lascia intravedere una minaccia. Si tratta della parcellizzazione del lavoro, della mancanza per le persone di una visione di processo, di insieme e di senso, e anche della distanza dalle fondamentali relazioni in presenza, con tutto il confronto, la condivisione e lo scambio emotivo che possono portare. Tutto ciò rischia di depauperare i contenuti professionali rendendo la persona “sostituibile a prescindere”.

      A maggior ragione, il lavoro in remoto dovrà quindi essere bilanciato da incontri in presenza pensati con più cura e qualità, proprio per rassicurare e stimolare le persone, rafforzando il senso di appartenenza, non solo all’azienda in quanto tale, ma anche e soprattutto ai valori e alla comunità.

      Il ricorso a occasioni di confronto creativo con output orientati a “come possiamo fare meglio da domani, insieme”, a gruppi di studio, apprendimento e lavoro, di laboratori, di momenti ricreativi e di socializzazione, darà la possibilità di mantenere un contatto costante con i pensieri, con l’inconscio collettivo, con le emozioni e i sentimenti delle persone, generando comportamenti e soluzioni che potrebbero superare le aspettative.

      Insieme ad essi, il faro puntato sul “dopo crisi”, sulla ricostruzione e su un futuro credibile, bello e soprattutto sostenibile potrà essere foriero di grandi opportunità.

      Inoltre, poiché “se non ci si distingue ci si estingue”, questo indurrà un forte ripensamento dei modelli di business e di leadership, dell’approccio al mercato, del modo di fare innovazione, delle prassi manageriali, della gestione della performance, dei modelli collaborativi.

      E’ auspicabile, ma anche possibile, che i valori verranno maggiormente orientati verso l’interno e verso le persone: fiducia, trasparenza, senso del Noi, valorizzazione delle diversità, inclusione, solidarietà, ascolto, gentilezza, collaborazione, connessioni, osmosi, creatività, iniziativa. E anche un nuovo linguaggio. Ciò costituirà una compensazione di aspetti come “accelerare, competere, sfidare” dove è invece il mercato che impone le sue regole. Un mercato e un sistema che peraltro hanno dimostrato la loro fragilità.

      Tutto dipenderà dal grado di bilanciamento tra l’orientamento alle persone e l’orientamento al mercato, dal mix tra il modello agile, che ha un’ottica di brevissimo, e il modello sostenibile, che per sua natura guarda lontano. Diversamente, si sarà persa una grande opportunità.

      La differenza la faranno le organizzazioni che avranno il coraggio e l’impegno di ripartire dall’essenziale e da ciò che conta veramente, dedicando un’attenzione speciale al contenimento della paura e coltivando la gioia di lavorare insieme per il Bene Comune.

      E probabilmente si scoprirà che proprio in momenti come questi, in condizioni come queste, le persone e le imprese possono esprimere il meglio di sé.

      Scritto da:
      Rossella Martelloni
      Senior Consultant di Hermes Consulting

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    • Una leadership che cresce con le domande

      Il coraggio di chiedere: una leadership che cresce con le domande

       

      Cara mia Bibi,
      da poco abbiamo passato il tuo compleanno. Lo aspettavi da tanto. 5 anni!
      Al telefono mi hai detto, che quando il virus se ne andrà, mi verrai a trovare e scapperemo insieme dal parrucchiere. Ne avrò bisogno più di te.

      In video mi hai fatto vedere un libro che ti è stato regalato. Ti piace molto. Si vedono le sagome di tanti paesi e continenti con sopra i disegni degli animali che ci vivono. Da qualche parte esiste addirittura uno scoiattolo volante. Me l’hai mostrato.
      Il virus che non vogliamo più, invece, non lo vediamo ed oramai è dappertutto, su tutte le mappe del tuo libro.

      Sai, il virus non ha colpito tutto il mondo nello stesso modo. In alcuni posti come la Nuova Zelanda, la Finlandia, Taiwan, la Danimarca e la Germania non è riuscito a diffondersi quanto in altri. I numeri degli esperti sono in media migliori.
      Ma perché ti racconto questo? Perché quattro/cinque tra i paesi europei più “sicuri” sono in questo momento governati da donne. Vuol dire, Bibi, che nei posti dove hanno deciso le donne, il virus si è meno attaccato.

      Conoscendoti, hai già capito perché.

      Perché quando l’hanno sentito arrivare, hanno deciso subito, senza aspettare. Hanno detto a tutti cosa stava succedendo e cosa dovevano fare. Non volevano rischiare di fare tardi. Un po’ come fai tu, quando capisci che per arrivare puntuale a scuola, devi andare al letto presto, alzarti con un sorriso, vestirti velocemente ecc.

      E perché lo capissero tutte le persone dei loro paesi, queste signore hanno usato parole chiare e comprensibili anche per una bambina come te. E hanno chiesto alle persone di fidarsi di loro. E poi hanno detto che anche loro avevano un po’ di paura del virus, ma che facendo le cose tutti insieme la paura sarebbe diminuita.  Alle persone più anziane hanno chiesto di avere un po’ di pazienza, ai genitori hanno detto che potevano lavorare da casa, se possibile, perché non tutti i lavori si possono fare da casa.  Ai bambini hanno detto che è meglio non andare a scuola perché al virus le scuole piacciono, e così via.

      Hai compiuto 5 anni. Sono molto orgogliosa di te, per le tantissime cose che sai già fare e che stai imparando con la tua inarrestabile curiosità. Ma lo sai quand’è che ti amo più di tutto? Quando mi dici: questo non lo so, spiegami! Col tuo sguardo esigente e un tono imperativo. Sono momenti in cui mi rendi sempre felice.

      Perché non importa sapere sempre tutto.  Quando ti accorgi di non sapere o di non capire una cosa che ti sembra importante, basta chiedere.

      Promettimi, di continuare così!
      Auguri!!
      Deine Oma

      P.S.: (per i grandi!)
      Le informazioni sopra riportate sono state tratte da un articolo apparso sul “Handelsblatt”.
      L’autrice, la giornalista Melanie Loos, conclude il suo testo con la seguente riflessione:

      “Uomini e donne hanno stili di leadership diversi e anche modalità differenti di esercitare il potere. La crisi del coronavirus ce lo fa vedere con molta evidenza. Questo non significa che le donne siano automaticamente dei leader migliori. Salta tuttavia all’occhio il numero di donne che guidano i loro paesi con molta affidabilità. Chi avrà preso le misure più giuste, lo sapremo solo col senno del poi. Ma sappiamo già oggi che questa crisi ci sta dando l’opportunità di ripensare su cosa intendiamo per una buona cultura di leadership. E vediamo che gli esempi da seguire non mancano.”

       

      Scritto da:
      Brigitte Mauel
      Senior Consultant di Hermes Consulting

       

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