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  • WORK-LIFE BALANCE: DALLA GENITORIALITÀ AL CAREGIVING – NUOVE FRONTIERE DEL WELFARE AZIENDALE

    Introduzione

    Le politiche di welfare aziendale stanno attraversando un periodo di significativo cambiamento, con un’attenzione crescente verso il Work-Life Balance (WLB).

    Il concetto di Work-Life Balance si riferisce alla capacità delle persone di gestire efficacemente il lavoro e la vita privata.

    Storicamente, queste politiche si sono concentrate principalmente sui genitori, ma oggi emerge la necessità di un approccio più inclusivo.

    I cambiamenti degli scenari globali hanno evidenziato il bisogno delle organizzazioni di adattarsi alle nuove esigenze e priorità delle persone.

    Secondo i dati ISTAT 2023l’Italia ha registrato un nuovo record nel calo delle nascite, con 197.000 nascite in meno rispetto al 2008 (72% in meno).

    Questo fenomeno non è isolato all’Italia, ma è osservabile in molti paesi occidentali, dove le priorità stanno cambiando e la vita sta assumendo forme diverse.

    Questi dati pongono importanti interrogativi:

    • Qual è il mindset di oggi?
    • Quali forme di responsabilità si evolveranno maggiormente domani?
    • Quali punti d’attenzione?

    Qual è il mindset di oggi?

    Con il calo della natalità, si registra un aumento significativo di lavoratori e lavoratrici che scelgono di non diventare genitori. Tuttavia, la cultura attuale spesso riserva importanti stereotipi a queste scelte di vita.

    In molti contesti lavorativi, le persone senza figli sono viste come “senza qualcosa”, ossia senza impegni che giustificherebbero un minore bisogno di supporto per l’equilibrio vita-lavoro.

    Questo stereotipo (bias) riguarda maggiormente le donne senza figli.

    A livello sociale, persiste la convinzione che una donna raggiunga la piena realizzazione solo attraverso la maternità, un bias che tende a oscurare altre forme di realizzazione personale e professionale.

    La ricerca di Verniers (2020) e Ashburn-Nardo (2016) ha dimostrato che le persone senza figli, indipendentemente dal genere, sono percepite in modo meno favorevole rispetto a coloro che sono genitori. Questo perché la scelta di non avere figli è vista come una violazione delle norme sociali, portando alla visione stereotipata che chi non ha figli abbia più tempo da dedicare al lavoro.

    In che modo valutiamo la meritevolezza di supporto?

    La percezione della meritevolezza e il giudizio sociale sono processi complessi che coinvolgono diverse aree del cervello. Le neuroscienze hanno identificato alcune aree chiave implicate in questi processi:

    Corteccia Prefrontale Mediale: coinvolta nella valutazione di sé e degli altri, nella presa di decisioni morali e nel giudizio sociale;

    Corteccia Cingolata Anteriore: contribuisce alla valutazione delle emozioni e alla regolazione delle risposte emotive

    Amigdala: importante per la risposta a stimoli emotivamente significativi

    Insula: coinvolta nella consapevolezza delle emozioni e nella percezione del disgusto e di altre emozioni negative.

    Queste aree lavorano insieme per formare giudizi complessi riguardanti la meritevolezza delle persone. Ad esempio, quando valutiamo se un collega merita maggiore supporto, la Corteccia Prefrontale Mediale può essere coinvolta nella valutazione delle sue esigenze e dei suoi contributi, mentre la Corteccia Cingolata Anteriore e l’Amigdala possono influenzare le nostre risposte emotive a tale valutazione.

    Un ulteriore esempio comune riguarda gli anziani, considerati maggiormente meritevoli di supporto per i contributi dati alla società e al mercato del lavoro. Al contrario, i disoccupati sono percepiti meno meritevoli, talvolta perché il loro status è attribuito a una mancanza di sforzo personale.

     

    Lo studio di Filippi e colleghi (2020) ha evidenziato che i dipendenti con figli sono spesso considerati più meritevoli di supporto per il Work-Life Balance rispetto ai loro colleghi senza figli. Questo bias si riflette anche nelle valutazioni delle donne, dove le madri sono viste come maggiormente bisognose di flessibilità rispetto alle donne senza figli.

    È fondamentale riconoscere che la vita privata delle persone senza figli può essere altrettanto piena di attività come quella di un genitore. Hobby, cura personale, volontariato, studio o semplicemente tempo libero contribuiscono al benessere e alla produttività generale del lavoratore o della lavoratrice.

    Quali forme di responsabilità si evolveranno maggiormente domani?

    Il Caregiving è l’attività di assistenza e cura prestata a una persona non autosufficiente, che può essere un familiare, un amico o una persona cara con disabilità, malattie croniche o anzianità.

    Questo ruolo, svolto principalmente dai familiari, include una vasta gamma di attività, dall’assistenza fisica e sanitaria al supporto emotivo e organizzativo.

    Secondo le stime della Commissione Europea, il valore delle ore di assistenza a lungo termine fornite dai caregiver informali è pari a circa il 2,5% del PIL dell’Unione Europea, una cifra superiore alla spesa pubblica per l’assistenza a lungo termine (Adecco Italia).

    In Italia, il 15,4% della popolazione fornisce cure o assistenza almeno una volta a settimana, con una maggiore incidenza tra le donne (17,6%) rispetto agli uomini (12,9%).

    Questo dato evidenzia che, nonostante molte persone scelgano di non avere figli, non sono esenti da responsabilità di caregiving. Infatti, un numero significativo si trova a prendersi cura di familiari anziani o malati. Queste persone, oltre a coltivare le loro passioni personali, dedicano una parte considerevole del loro tempo e delle loro energie alla cura quotidiana di parenti non autosufficienti.

    Il ruolo di caregiver familiare si estende ben oltre la genitorialità, includendo una vasta gamma di attività di assistenza che influenzano profondamente la vita quotidiana e il benessere psicofisico di chi lo svolge.

    Questo impegno, spesso sottovalutato, è cruciale per il supporto delle persone care e necessita di un riconoscimento e un supporto adeguato dalle politiche di welfare aziendale.

    Quali punti di attenzione?

    Il primo passo da compiere è riconoscere il valore e le esigenze delle persone, indipendentemente dal fatto che siano genitori o meno.

    Offrire flessibilità e supporto a tutti i dipendenti, considerando le diverse forme di responsabilità di cura, può migliorare significativamente il benessere e la produttività sul posto di lavoro.

    In un mondo in cui le priorità e le forme di vita cambiano, le aziende possono scegliere di adottare un approccio inclusivo e adattabile alle diverse esigenze dei loro dipendenti.

    Senza dimenticare le prospettive del futuro, una popolazione che invecchia e le nascite diminuiscono, per arrivare al domani nel miglior modo possibile.

    Conclusioni

    Le aziende hanno l’opportunità di creare un ambiente di lavoro più inclusivo e sostenibile, che valorizzi ogni dipendente e le sue specifiche esigenze. Riconoscere il valore del caregiving e delle altre forme di impegno personale e professionale contribuirà a costruire organizzazioni più resilienti e soddisfatte, capaci di rispondere alle sfide del domani.

     

    Clicca qui per ulteriori approfondimenti: https://mailchi.mp/hermesconsulting.com/work-life-balance-avere-o-non-avere-figli-quali-impatti

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  • OLTRE I CONFINI DELL’ETÀ: L’INTELLIGENZA INTERGENERAZIONALE PER UNIRE E INNOVARE

    HBR: Oggi in molte organizzazioni emerge una sfida riguardante l’intergenerazionalità che, se non affrontata e gestita, può essere foriera di una grande dispersione di energie. Ne parliamo con Hermes Consulting.

    Chiediamo il punto di vista di Diego Martone, consulente Hermes Consulting e autore del libro “Senza Età. Come generazioni diverse coesistono e insieme creano valore”.

    Attualmente nelle aziende convivono 4 generazioni, spesso descritte solo per gli elementi che esaltano le differenze di origine, cultura e linguaggio, bisogni, competenze e aspirazioni.

    Anche le indagini intergenerazionali delle aziende si imbattono in un noto luogo comune: “È difficile capirsi, vedersi, riconoscersi e parlare la stessa lingua”. Questo pensiero è una scorciatoia facile, un mix dei bias di semplificazione e conferma, che evidenzia quasi esclusivamente le differenze, spesso esagerandole e stereotipandole. Il risultato è scontato: l’incomunicabilità e il mancato riconoscimento reciproco.

    Come possiamo affrontare queste distorsioni? Possiamo alimentare  l’inter-operabilità umana, ovvero un sistema che permetta di valorizzare ogni contributo      con     visione     unitaria,     integrata     e prospettica, prescindendo da qualsiasi tematica connessa all’età, perseguendo un obiettivo comune.

    Non  è  solo  utile  farlo,  ma  è  necessario  per  il benessere dell’azienda e le positive ricadute sia sul business che sulla salute delle persone.

    Perché è così difficile per noi accettare e integrare la diversità generazionale, nonostante gli sforzi consapevoli? Lo chiediamo ad Eleonora Ventura, psicologa del Wellbeing.

    L’integrazione della diversità non è mai stata una cosa semplice.

    Le neuroscienze ci insegnano che il nostro cervello cerca naturalmente l’omogeneità ed è sospettoso verso ciò che percepiamo diverso. Siamo fisiologicamente predisposti a creare un gruppo di appartenenza e a rafforzarne il valore per distinzione dagli altri, di cui estremizziamo i tratti più lontani dai nostri.

    Un meccanismo istintivo che è stato utile per semplificare la complessità. Ci ha guidato spesso a non vederci, a giudicarci per semplificare, a trarre le nostre conclusioni troppo in fretta, ad escluderci a vicenda, alimentando pregiudizi e stereotipie.

    Cosa vedete succedere nelle aziende in cui ci sono dei silos generazionali? Lo chiediamo a Lucia Grazi, Partner da oltre 20 anni e responsabile dell’inserimento di giovani in Hermes Consulting.

    Il fenomeno “Giovani talenti cercasi” o “Nuovi talenti in fuga” è ormai evidente, parallelamente a un fenomeno di marginalizzazione delle persone sopra i 50 anni.

    L’emergere di silos generazionali porta con sé chiari sintomi di disfunzione: notiamo una comunicazione inefficace e una marcata resistenza al cambiamento, soprattutto tra i membri più anziani dell’organizzazione. Queste frizioni limitano non solo le opportunità di mentorship tra le generazioni, ma generano anche tensioni che compromettono la collaborazione, rendendo l’ambiente lavorativo meno coeso. Inoltre, la mancanza di integrazione tra le generazioni spesso causa un alto turnover: i giovani lasciano in cerca di nuove opportunità, mentre i senior si sentono trascurati e sottovalutati.

     

    Inoltre, la difficoltà di innovare a fondo e la sfida di parlare lo stesso linguaggio dei nuovi clienti, sono dirette conseguenze di una conoscenza che non viene condivisa come dovrebbe. Ciò che impariamo e come interpretiamo le informazioni dovrebbero essere patrimonio comune, ma spesso non lo sono.

    Chi può abilitare una trasformazione?

    Per trasformare le culture in azienda, 3 parti devono entrare in dialogo: il Management, l’HR e una rappresentanza di generazioni diverse.

    Serve una leadership inclusiva e sensibile, capace di favorire la mediazione e l’incontro tra persone, che valorizzi i diversi contributi estendendoli in un’unica voce. Allo stesso modo, HR ha bisogno di rivedere i presupposti su cui sviluppa la cura delle persone, dalla selezione, alla valutazione, al dialogo continuo nei team, a strumenti che abilitino una condivisione reale.

    Eleonora, nel tuo ruolo di Client Manager, cosa proponi alle aziende per identificare e capitalizzare punti di forza e aree di miglioramento tra le diverse generazioni in azienda?

    Per prima cosa, organizziamo un workshop che si chiama “Senza età”, come il libro di Diego, per sensibilizzare i leadership team e i manager a scoprire i bias nascosti.

    Poi il nostro approccio fotografa l’azienda con analisi generazionali di clima e focus group a rappresentanza inclusiva, in cui esploriamo anche gli scenari di futuro possibili, con una metodologia consolidata, per individuare quello auspicato e facciamo scegliere i passi da fare insieme per realizzarlo: lo chiamiamo Future- proof horizons strategies e rende già chi partecipa, attore di una co-creazione inclusiva, perciò “nostra”.

    E dopo questa presa di consapevolezza, Lucia, come uscire dai silos e creare un ponte per la co-creazione?

    Lo facciamo con una rappresentanza inclusiva, dove Leadership Team, HR e popolazione aziendale intergenerazionale, co-creano l’Employée Value Proposition. Gruppi di lavoro tematizzati incarnano diverse parti dell’azienda e della sua cultura e sono invitati a catturare e raccontare aspetti della loro organizzazione nel presente e in progressione. Testimoniano valori, pratiche, significati condivisi.

    Seguono i Grounding Action Lab percorsi concreti per passare dalla cultura all’azione, in cui coinvolgiamo gruppi eterogenei, che a partire da obiettivi e aspetti identitari comuni, prima negoziano le linee di indirizzo sugli sviluppi strategici, da integrare nel piano di impresa. Poi, trasformano le priorità di azione in cantieri di progettazione, testing e implementazioni pilota, sperimentabili in contesti controllati e cicli brevi.

    Le generazioni si incontrano e generano insieme. Inoltre, possiamo unire valori e innovazione. Un caso è quello della Value Innovation Week”,  un evento rivolto a tutta la popolazione aziendale, per lavorare sui valori insieme e tramutarli in nuove idee frutto di contaminazione e conoscenza reciproca.

    E non dimentichiamo gli “Age of Value”, percorsi di group coaching per rinnovare l’impulso professionale di chi ha più esperienza, valorizzandone le competenze e stimolando la trasmissione di best practices.

    Come inquadrate le progettualità che sviluppate rispetto alle tematiche generazionali?

    Alimentiamo un’intelligenza intergenerazionale collettiva.

    Diego, come definite l’intelligenza intergenerazionale e quale impatto ha questo approccio sulla cultura aziendale?

     Consideriamo l’intelligenza intergenerazionale individuale come la capacità di riconoscere le diverse prospettive, competenze e valori, della propria e di altre generazioni, armonizzarle e metterle a fattore comune, per trovare soluzioni nuove.

    Hermes Consulting trasferisce sull’azienda tale approccio che riconosce la diversità di età come una risorsa preziosa e non un ostacolo.

    Mettere in pratica un’intelligenza intergenerazionale collettiva, significa creare un ambiente dove l’etica e la cultura valoriale, il sapere esperienziale e le pratiche consolidate, la conoscenza di un ruolo incontrano nuove idee, una mentalità aperta e il rinnovato desiderio di collaborare per un purpose comune.

    Attraverso il dialogo e la collaborazione intergenerazionale, le aziende possono migliorare significativamente la loro capacità di innovare e risolvere problemi in modo creativo. Questo pone le basi per una maggiore armonia interna, un’alta resilienza e la longevità dell’organizzazione.

    Come fare per attivare un progetto con voi?

    Siamo disponibili a incontrare chi fosse interessato e vedere quali soluzioni sono più adatte al suo contesto. Potete scrivere a lucia.grazi@hermesconsulting.com e visitare il nostro sito www.hermesconsulting.it

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  • Dal Codice alla Coscienza: Guidare l’IA verso un futuro senza Bias

    INTRODUZIONE

    In un’era in cui l’intelligenza artificiale (IA) non è più relegata ai confini della fantascienza, ma si manifesta in strumenti quotidiani come assistenti vocali, algoritmi di selezione e piattaforme di e-commerce, dobbiamo chiederci: chi beneficia realmente delle sue capacità?

    Sebbene l’IA prometta innovazioni rivoluzionarie, porta con sé anche il rischio di amplificare i pregiudizi sociali esistenti, inclusi quelli legati al genere e all’etnia. In questo articolo esploriamo i possibili sviluppi dell’IA verso un futuro più equo e inclusivo.

    BIAS: UNA DEFINIZIONE ESSENZIALE

    Prima di procedere ulteriormente, è importante definire il termine “bias”. Nel contesto dell’intelligenza artificiale, il “bias” si riferisce a pregiudizi non intenzionali che possono emergere dai dati usati per addestrare gli algoritmi. Questi pregiudizi possono causare comportamenti non equi o discriminatori da parte delle tecnologie basate sull’IA, spesso riflettendo disuguaglianze sociali preesistenti.

    L’ESSERE UMANO INFLUENZA LA MACCHINA

    L’IA, per quanto avanzata, non è immune all’errore umano. Essa apprende dai dati che noi forniamo e questi dati sono spesso intrisi delle disuguaglianze sociali che caratterizzano la nostra storia e cultura. I pregiudizi di genere, in particolare, sono un problema significativo. Ad esempio, i sistemi di riconoscimento facciale mostrano una precisione del 99% nel riconoscere volti maschili bianchi, ma questa percentuale scende drasticamente quando si tratta di volti femminili di altra etnia, con errori fino al 34% (MIT Media Lab).

    Questo problema si estende oltre la tecnologia di riconoscimento: negli algoritmi di reclutamento, se un sistema è addestrato con dati che riflettono una predominanza di uomini in ruoli di leadership, potrebbe sviluppare un bias verso i candidati maschili. È pertanto essenziale interrogarsi: stiamo permettendo che la nostra tecnologia rinforzi inconsciamente disparità secolari?

    Potremmo far fronte a questo possibile rischio integrando all’interno dei nostri algoritmi set di dati equilibrati e rappresentativi della diversità di genere, etnica e culturale.

    O anche, ad esempio, nel 2021, come oggi, le donne rappresentavano circa il 50% della popolazione mondiale, eppure solo il 22% risulta essere una professionista in IA a fronte della percentuale maschile del 78%. (Deloitte, 2021)

    Cosa significa?

    La bassa percentuale di donne nell’ambiente informatico influenza il modo in cui le IA vengono allenate, implementarne, dunque, la presenza promuovendo una maggiore inclusione nei team di sviluppo delle Intelligenze Artificiali aiuterebbe a mitigare i possibili bias legati al genere.

    Il tocco umano sulle IA non si limita solamente alla fase di input dei dati, ma è un processo continuo, che necessita di revisioni costanti e periodiche, effettuate da team interdisciplinari, che comprendano anche esperti di etica, di scienze sociali e tecnologia.

    Questi team sono cruciali per identificare e correggere bias non intenzionali, che possono sfuggire ai team di sviluppo più omogenei.

    È nella ricchezza dell’integrazione e dell’unione di prospettive differenti che possono essere coltivate correttezza etica ed efficacia pratica delle IA.

    Il perché non è per nulla banale: quando i sistemi sono testati e sviluppati da un gruppo diversificato di persone, le soluzioni risultanti sono maggiormente adatte a un’ampia gamma di applicazioni nella vita reale, includendo mondi a prima vista completamente diversi ma legati da un fattore umano comune.

    Conclusioni

    L’evoluzione dell’intelligenza artificiale (IA) offre immense possibilità di miglioramento della vita quotidiana, ma presenta anche significative sfide etiche. È importante che gli sviluppatori di IA affrontino proattivamente i bias di genere e altre forme di discriminazione.

    Attraverso l’adozione di un approccio inclusivo e responsabile, basato sulla diversità, l’educazione continua e una rigorosa supervisione, l’IA può essere guidata verso uno sviluppo che di cui beneficino equamente tutti i membri della società.  anche vero che la capacità di utilizzare bene questa tecnologia, di conoscerne i limiti e le possibilità, risiede nella coscienza umana. Sta a noi usufruire responsabilmente dell’IA, garantendo che i suoi sviluppi siano impiegati per promuovere equità e giustizia, al fine di evitare o amplificare le disparità esistenti.

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  • Il Passato Stereotipato, il Presente Inclusivo e il Futuro Plastico della Diversità

    INTRODUZIONE

    Quanto spesso sentiamo parlare di Diversity & Inclusion, ma che rapporto abbiamo con questo binomio nominato così frequentemente? Come reagisce il nostro cervello di fronte alla diversità e come possiamo educarlo?

    Le neuroscienze si impegnano nel continuo studio per fare luce sui meccanismi sottostanti il nostro comportamento conscio e inconscio. Così la comprensione di come funzioniamo può aiutarci a mettere in atto azioni e comportamenti davvero coerenti ai nostri valori, abilitanti un maggiore benessere e in linea con la sostenibilità dei sistemi in cui siamo inseriti.

    Come è cambiata la D&I nel tempo?

    IL PASSATO: UN’EPOCA DI MANCATA CONSAPEVOLEZZA

    Cosa intendiamo oggi quando pensiamo alla diversità? E cosa se ascoltiamo la parola inclusione?

    Oggi le sentiamo pronunciare insieme infinite volte e le associamo all’esigenza preziosa di eguaglianza, rispetto, tutela e parità.

    Tuttavia, nessuno di noi dimentica la fatica con la quale il valore della diversità sia stato reso noto e la difficoltà con la quale, anche oggi, venga protetto. L’ integrazione tra diversità e inclusione non è, e non è mai stata, una cosa semplice.

    Le neuroscienze ci insegnano che il nostro cervello tende naturalmente a cercare l’omogeneità e a essere sospettoso verso ciò che percepiamo diverso.

    Siamo quindi fisiologicamente predisposti a creare un gruppo di appartenenza, fatto di chi ci assomiglia di più, e a rafforzarne il valore per distinzione da un out-group, di cui estremizziamo i tratti più lontani dai nostri.

    Questo accade perché ci siamo evoluti da una specie animale, che era predata e soggetta a minacce di ogni tipo. Doveva tutelare la sua sopravvivenza con azioni e reazioni immediate di attacco, fuga o congelamento.

    Di conseguenza, la nostra mente ha sviluppato e rinforzato nel tempo scorciatoie veloci di pensiero, istintive, per proteggersi, difendersi, decidere rapidamente a chi dare la nostra fiducia.

    Esiste una parte del nostro cervello più antica, rettiliana, che ancora prima del nostro ragionamento, si attiva automaticamente e risponde per noi.

    Questo meccanismo fine, ci è stato utile per milioni di anni, per semplificare la complessità, ed essere presenti oggi. Lo portiamo tuttora con noi come un filtro sugli occhi; liberarsene non è facile. È un retaggio evoluzionistico, risalente a quando ancora eravamo animali.

    Per un tempo lunghissimo, ci siamo immaginati e descritti come individui razionali per eccellenza, pensatori strategici e analitici, quando il nostro intuito ha sempre comandato per noi, e ci ha portato spesso a escluderci a vicenda, a non vederci, a giudicarci per semplificare, a trarre le nostre conclusioni un po’ troppo in fretta, alimentando pregiudizi e stereotipie, guidati dalle distinzioni di genere, etnia, religione, lingua, tratti somatici, possibilità fisiche e cognitive.

    Siamo stati profondamente ciechi all’inclusione e talvolta l’abbiamo accolta solo applicando regole superficiali, senza riconoscere i filtri che ognuno di noi ha sugli occhi.

    Ad esempio, molte aziende hanno praticato per anni una forte discriminazione di genere nelle assunzioni e nelle retribuzioni. Le posizioni di leadership sono state riservate in gran parte agli uomini, e le politiche aziendali mancavano di consapevolezza sulla necessità di un ambiente di lavoro inclusivo. Anche quando poi sono state applicate regole a sostengo di una maggiore equità, il loro impatto non è stato significativo e il cambiamento culturale è risultato poco incisivo.

    OGGI: UNO SGUARDO SUL NOSTRO FUNZIONAMENTO, UN PASSO VERSO L’INCLUSIONE

    Nel corso del tempo, tuttavia, è emerso un cambiamento fondamentale nel modo in cui abbiamo iniziato a guardare alla diversità e all’inclusione nelle aziende.

    Innanzitutto, ci siamo resi conto che non siamo affatto guidati dal lume di una ragione sempre attiva. La ragione è, anzi, ciò che più di recente si è sviluppato, ma ciò che ci ha permesso di sopravvivere nella storia è da sempre la capacità istintiva di sentire e la velocità di scorciatoie di pensiero che ci portano a semplificare per ottenere risposte rapide ma imperfette.

    Cosa succede però quando queste scorciatoie ci portano a evidenziare e stereotipare le differenze?

    Le nuove scoperte delle neuroscienze evidenziano che il nostro cervello risponde all’esclusione sociale con una risposta reattiva di dolore. I risultati di tecniche di neuro-imaging rendono chiaro che chi si sente escluso vive l’esclusione con sensazioni equivalenti a quelle del dolore fisico ed emotivo. Il cervello attiva gli stessi circuiti.

    D’altro canto, sentirsi accettati e inclusi attiva la produzione di ormoni come l’ossitocina e la dopamina, che favoriscono la motivazione, la creatività e il perseguimento di un risultato positivo che si mantiene nel tempo.

    L’inclusione crea un ambiente sociale in cui le persone si sentono valorizzate e rispettate, aumentando così la coesione di gruppo e lo scambio di idee.

    Oggi, insomma è evidente l’importanza che riveste l’inclusione, non solo a chi ha sensibilità e buon senso, ma anche a chi ha a cuore gli obiettivi di produttività di un’azienda.

    Allo stesso modo ci è chiara l’importanza di uno sviluppo di consapevolezza per poterlo fare. Non bastano regolamenti ben progettati ma è necessario un cambio di mindset.

    IL FUTURO: LA NEUROPLASTICITÀ E L’INCLUSIONE INTENZIONALE

    Oggi si parla di inclusione della diversità in molteplici ambiti della società, tra cui il lavoro, l’istruzione, la cultura e la vita quotidiana.

    Immaginiamo come ambienti inclusivi spazi in cui ogni individuo è rispettato, valorizzato e ha accesso alle stesse opportunità degli altri, indipendentemente dalle differenze personali. Diversità è un valore che consente l’evoluzione, grazie all’unione e all’integrazione di prospettive, backgroud e qualità diverse tra le persone.

    Nel futuro immaginiamo che la valorizzazione della diversità prescinderà dalle più comuni categorizzazioni legate al genere, all’età, all’etnia, alla provenienza geografica, ma si ricercherà un approccio incentrato sui talenti individuali.

    In questa prospettiva avanzata, la società valorizzerà maggiormente ciò che ogni individuo porterà al tavolo in termini di abilità, competenze e prospettive uniche e disegnerà percorsi di sviluppo differenziati per fare emergere le qualità che ogni persona può esprimere.

    Non esisteranno più quindi i talenti per come li intendiamo oggi, ma potenziali multipli da coltivare in modo che ogni persona sia messa nelle condizioni di donare il proprio contributo più alto.

    Gli studi di neuroscienze ci sostengono nel comprendere come possiamo adottare approcci più consapevoli per abbracciare la diversità.

    Il futuro dell’inclusione aziendale è legato alla consapevolezza e all’azione intenzionale.

    Le neuroscienze ci dimostrano che il nostro cervello è plastico, il che significa che può cambiare e adattarsi nel tempo. 

    Per promuovere l’inclusione, scegliamo di lavorare sulla neuroplasticità del nostro cervello. Possiamo farlo avendo a mente 3 obiettivi fondamentali:

    • CONOSCERE SÉ STESSI: essere coscienti delle nostre inclinazioni e dei nostri automatismi ci permette di agire in modo più consapevole.
    • CONOSCERE GLI ALTRI: imparare a conoscere gli altri in modo autentico, praticando empatia e flessibilità mentale, questo ci consente di costruire relazioni basate sulla fiducia e sulla comprensione reciproca.
    • COSTRUIRE PONTI: scegliamo di agire come modelli di inclusione, progettando comportamenti che creino collegamenti tra le differenze e promuovendo la condivisione delle best practice.

    La consapevolezza e l’azione intenzionale saranno il cuore di questo cambiamento e le fondamenta su cui costruire una cultura inclusiva e sostenibile.

    Noi di Hermes ci impegniamo a sostenere questo cambiamento, lavorando al fianco di persone e organizzazioni per implementare modelli di business sostenibili e promuovere una cultura dell’open mind.

    La responsabilità delle aziende, come la nostra, è creare un sistema economico circolare, orientato al benessere delle persone e della società.

    Come possiamo, individualmente e collettivamente, contribuire a costruire ponti tra le differenze, superando gli automatismi del passato? La sfida è aperta, e la risposta risiede nelle scelte che facciamo adesso.

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