WORK-LIFE BALANCE: DALLA GENITORIALITÀ AL CAREGIVING – NUOVE FRONTIERE DEL WELFARE AZIENDALE
- Ago 30, 2024
- By Hermes
- In Benessere e Felicità, futuro e strategia, Inclusion e Diversity, sostenibilità
Introduzione
Le politiche di welfare aziendale stanno attraversando un periodo di significativo cambiamento, con un’attenzione crescente verso il Work-Life Balance (WLB).
Il concetto di Work-Life Balance si riferisce alla capacità delle persone di gestire efficacemente il lavoro e la vita privata.
Storicamente, queste politiche si sono concentrate principalmente sui genitori, ma oggi emerge la necessità di un approccio più inclusivo.
I cambiamenti degli scenari globali hanno evidenziato il bisogno delle organizzazioni di adattarsi alle nuove esigenze e priorità delle persone.
Secondo i dati ISTAT 2023, l’Italia ha registrato un nuovo record nel calo delle nascite, con 197.000 nascite in meno rispetto al 2008 (72% in meno).
Questo fenomeno non è isolato all’Italia, ma è osservabile in molti paesi occidentali, dove le priorità stanno cambiando e la vita sta assumendo forme diverse.
Questi dati pongono importanti interrogativi:
- Qual è il mindset di oggi?
- Quali forme di responsabilità si evolveranno maggiormente domani?
- Quali punti d’attenzione?
Qual è il mindset di oggi?
Con il calo della natalità, si registra un aumento significativo di lavoratori e lavoratrici che scelgono di non diventare genitori. Tuttavia, la cultura attuale spesso riserva importanti stereotipi a queste scelte di vita.
In molti contesti lavorativi, le persone senza figli sono viste come “senza qualcosa”, ossia senza impegni che giustificherebbero un minore bisogno di supporto per l’equilibrio vita-lavoro.
Questo stereotipo (bias) riguarda maggiormente le donne senza figli.
A livello sociale, persiste la convinzione che una donna raggiunga la piena realizzazione solo attraverso la maternità, un bias che tende a oscurare altre forme di realizzazione personale e professionale.
La ricerca di Verniers (2020) e Ashburn-Nardo (2016) ha dimostrato che le persone senza figli, indipendentemente dal genere, sono percepite in modo meno favorevole rispetto a coloro che sono genitori. Questo perché la scelta di non avere figli è vista come una violazione delle norme sociali, portando alla visione stereotipata che chi non ha figli abbia più tempo da dedicare al lavoro.
In che modo valutiamo la meritevolezza di supporto?
La percezione della meritevolezza e il giudizio sociale sono processi complessi che coinvolgono diverse aree del cervello. Le neuroscienze hanno identificato alcune aree chiave implicate in questi processi:
Corteccia Prefrontale Mediale: coinvolta nella valutazione di sé e degli altri, nella presa di decisioni morali e nel giudizio sociale;
Corteccia Cingolata Anteriore: contribuisce alla valutazione delle emozioni e alla regolazione delle risposte emotive
Amigdala: importante per la risposta a stimoli emotivamente significativi
Insula: coinvolta nella consapevolezza delle emozioni e nella percezione del disgusto e di altre emozioni negative.
Queste aree lavorano insieme per formare giudizi complessi riguardanti la meritevolezza delle persone. Ad esempio, quando valutiamo se un collega merita maggiore supporto, la Corteccia Prefrontale Mediale può essere coinvolta nella valutazione delle sue esigenze e dei suoi contributi, mentre la Corteccia Cingolata Anteriore e l’Amigdala possono influenzare le nostre risposte emotive a tale valutazione.
Un ulteriore esempio comune riguarda gli anziani, considerati maggiormente meritevoli di supporto per i contributi dati alla società e al mercato del lavoro. Al contrario, i disoccupati sono percepiti meno meritevoli, talvolta perché il loro status è attribuito a una mancanza di sforzo personale.
Lo studio di Filippi e colleghi (2020) ha evidenziato che i dipendenti con figli sono spesso considerati più meritevoli di supporto per il Work-Life Balance rispetto ai loro colleghi senza figli. Questo bias si riflette anche nelle valutazioni delle donne, dove le madri sono viste come maggiormente bisognose di flessibilità rispetto alle donne senza figli.
È fondamentale riconoscere che la vita privata delle persone senza figli può essere altrettanto piena di attività come quella di un genitore. Hobby, cura personale, volontariato, studio o semplicemente tempo libero contribuiscono al benessere e alla produttività generale del lavoratore o della lavoratrice.
Quali forme di responsabilità si evolveranno maggiormente domani?
Il Caregiving è l’attività di assistenza e cura prestata a una persona non autosufficiente, che può essere un familiare, un amico o una persona cara con disabilità, malattie croniche o anzianità.
Questo ruolo, svolto principalmente dai familiari, include una vasta gamma di attività, dall’assistenza fisica e sanitaria al supporto emotivo e organizzativo.
Secondo le stime della Commissione Europea, il valore delle ore di assistenza a lungo termine fornite dai caregiver informali è pari a circa il 2,5% del PIL dell’Unione Europea, una cifra superiore alla spesa pubblica per l’assistenza a lungo termine (Adecco Italia).
In Italia, il 15,4% della popolazione fornisce cure o assistenza almeno una volta a settimana, con una maggiore incidenza tra le donne (17,6%) rispetto agli uomini (12,9%).
Questo dato evidenzia che, nonostante molte persone scelgano di non avere figli, non sono esenti da responsabilità di caregiving. Infatti, un numero significativo si trova a prendersi cura di familiari anziani o malati. Queste persone, oltre a coltivare le loro passioni personali, dedicano una parte considerevole del loro tempo e delle loro energie alla cura quotidiana di parenti non autosufficienti.
Il ruolo di caregiver familiare si estende ben oltre la genitorialità, includendo una vasta gamma di attività di assistenza che influenzano profondamente la vita quotidiana e il benessere psicofisico di chi lo svolge.
Questo impegno, spesso sottovalutato, è cruciale per il supporto delle persone care e necessita di un riconoscimento e un supporto adeguato dalle politiche di welfare aziendale.
Quali punti di attenzione?
Il primo passo da compiere è riconoscere il valore e le esigenze delle persone, indipendentemente dal fatto che siano genitori o meno.
Offrire flessibilità e supporto a tutti i dipendenti, considerando le diverse forme di responsabilità di cura, può migliorare significativamente il benessere e la produttività sul posto di lavoro.
In un mondo in cui le priorità e le forme di vita cambiano, le aziende possono scegliere di adottare un approccio inclusivo e adattabile alle diverse esigenze dei loro dipendenti.
Senza dimenticare le prospettive del futuro, una popolazione che invecchia e le nascite diminuiscono, per arrivare al domani nel miglior modo possibile.
Conclusioni
Le aziende hanno l’opportunità di creare un ambiente di lavoro più inclusivo e sostenibile, che valorizzi ogni dipendente e le sue specifiche esigenze. Riconoscere il valore del caregiving e delle altre forme di impegno personale e professionale contribuirà a costruire organizzazioni più resilienti e soddisfatte, capaci di rispondere alle sfide del domani.
Clicca qui per ulteriori approfondimenti: https://mailchi.mp/hermesconsulting.com/work-life-balance-avere-o-non-avere-figli-quali-impatti
Gender Pay Gap: la lunga strada verso la realizzazione dell’inclusione
- Ott 30, 2021
- By Hermes
- In Non categorizzato
Mentre ci accingevamo a completare questo articolo, lo scorso 26 ottobre è arrivata la notizia felice: c’è stato un primo passo verso la realizzazione di vera inclusione all’interno del nostro sistema.
È infatti diventata legge una proposta sulla parità salariale che mira al superamento delle discriminazioni e penalizzazioni che molte donne affrontano nel nostro paese.
Rimane un primo passo che deve poi essere messo concretamente in pratica per diventare realtà.
Noi speriamo che venga fatto il prima possibile.
Lo scopo di questo articolo rimane il medesimo.
Vogliamo condividere alcune informazioni di scenario relativamente al Gender Pay che è parte del più ampio tema del divario di inclusione in ambito lavorativo.
La partecipazione nel mercato del lavoro
Dal secondo dopoguerra ad oggi, si è assistito ad un costante aumento della partecipazione al Mercato del lavoro da parte delle donne, le quali nel tempo (tutte le ricerche lo riportano) sono protagoniste di performance formative ottimali (spesso migliori rispetto a quelle dei colleghi uomini sia in termini di tempi che di risultati ottenuti).
Eppure più si sale nelle scale gerarchiche delle aziende private o nella pubblica amministrazione fino alla politica, più cala la presenza femminile nei ruoli apicali.
Al di là del gender pay gap, si investe per preparare al meglio una parte di intelligenza del Paese che poi non viene impiegata, a discapito di tutti.
Nel 2018, quando la consigliera per il programma di sviluppo delle Nazioni Unite Anuradha Seth aveva definito la disuguaglianza retributiva tra uomini e donne «il più grande furto della storia», la sua espressione aveva suscitato scalpore. «Non esiste un solo Paese, né un solo settore in cui le donne abbiano gli stessi stipendi degli uomini a fronte di pari competenze e istruzione».
La situazione in Italia
Dal 28° Rapporto sulle Retribuzioni di ODM Consulting, società di consulenza HR di Gi Group, emerge che a parità di esperienza lavorativa, il pay gap legato al genere è del 5,5% tra laureati e dell’8% tra non laureati.
A svantaggio, manco a dirlo, delle donne, sistematicamente meno retribuite rispetto ai colleghi di sesso maschile.
Il rapporto di ODM Consulting sembra suggerire che nel nostro Paese la recessione innescata dal Covid abbia consolidato il gender pay gap.
Inoltre la crisi dovuta agli effetti della pandemia si è abbattuta in modo asimmetrico sul mercato del lavoro, finendo con l’azzerare più posti di lavoro femminili che maschili
E così la somma di problemi di vecchia data con le nuove difficoltà si traduce in un peggioramento — l’ennesimo — della condizione femminile in Italia.
Gender pay gap, le differenze di salario tra uomini e donne
Dall’analisi dell’evoluzione delle retribuzioni in Italia nel 2019 e nel primo semestre 2020 emerge un dato chiaro: il genere gioca un ruolo decisivo nell’influenzare gli stipendi.
In Italia, secondo il 28° Rapporto sulle Retribuzioni, gli stipendi degli uomini sono, in media, superiori a quelli delle donne.
Questo vale sia per tutte le categorie professionali prese in considerazione dall’indagine (dirigenti, impiegati, quadri, operai) e a tutti i livelli.
Gli uomini sono meglio retribuiti già all’inizio della loro carriera.
Le stime di ODM Consulting suggeriscono che un under 30 entrato da uno o due anni nel mondo del lavoro ogni anno guadagna in media 25.216 euro se non laureato e 29.780 euro se laureato.
Una coetanea, a parità di titolo di studio ed esperienza, in media trova in busta paga rispettivamente 23.210 euro o 28.051 euro.
La differenza di salario — sempre calcolata su base annuale — varia a seconda della professione e dell’inquadramento.
Oltre i numeri
Questi studi sono importanti per testimoniare concretamente questa disparità del gender pay gap. Tuttavia non bastano però ad inquadrare in maniera completa il fenomeno.
La disuguaglianza è legata anche ad un tema di opportunità:
- la prevalenza delle donne nei posti di lavoro a part time (il 73,4% dei lavoratori a tempo parziale, secondo i dati Istat del 2019, sono donne)
- il cosiddetto “soffitto di cristallo”, che frena l’ascesa professionale delle donne, escludendole dalle posizioni meglio retribuite. È stato rilevato che solo il 32% dei dirigenti in Italia sia donna. Se guardiamo ai ruoli di vertice delle organizzazioni vediamo che le amministratrici delegate sono solo il 6,3% del totale (Fonte: Rapporto Cerved-Fondazione Marisa Bellisario 2020)
La legge di stato sulla parità di salario è un primo passo importante. Ne restano molti altri da fare per rendere sempre più inclusiva la nostra società:
- dobbiamo impegnarci anche per sciogliere il nodo del tema tra bilanciamento e vita privata. Ancora oggi lo sappiamo che questo aspetto va a svantaggio delle donne che optano più degli uomini per questa soluzione.
- Bisogna continuare a fare pressione e agire per abbattere il soffitto di cristallo. Bisogna rendere le quote rosa un significativo atto a sostegno di una cultura aziendale aperta e capace di generare sempre maggiore beneficio proprio attraverso l’integrazione e valorizzazione delle diversità.
Vuoi la globalizzazione con cui facciamo i conti tutti i giorni, vuoi gli effetti dei social, negli ultimi anni nelle aziende italiane sta prendendo sempre più campo la tematica Diversity e Inclusion.
Nella nostra esperienza professionale avevamo già incontrato questo tema in ambiti più strutturati.
Si trattava di realtà multinazionali che lo vivevano come aspetto di gestione importante dal punto di vista manageriale. Questo aspetto era sottolineato proprio per la loro condizione di “diversità” data dall’essere oltre realtà di territorio nazionale.
Negli ultimi 5 anni questo tema è cresciuto in maniera esponenziale.
Se ne parla anche nell’ambito delle realtà aziendali nazionali, ed oggi è elemento di forte focalizzazione da parte anche dei vertici aziendali.
Cosa è Diversity e Inclusion?
Nel glossario di Diversity Lab è molto ben sintetizzato il concetto di diversity&inclusion: “Si riferisce all’impegno a riconoscere e apprezzare la varietà di caratteristiche che rendono gli individui unici in un’atmosfera che abbraccia e celebra la realizzazione individuale e collettiva. In ambito lavorativo, con diversity&inclusion si definisce una strategia di management finalizzata a una cultura aziendale inclusiva, basata sulla valorizzazione delle differenze individuali quali fattori di innovazione e di miglioramento delle performance personali e organizzative.”
L’ultimo passaggio chiarisce bene quale è lo scopo principale per le aziende. Essere, cioè, in grado di valorizzare le differenze al fine di migliorare significativamente le performance dei singoli individui, e di conseguenza quelle di tutta l’organizzazione.
Per dirlo a modo nostro, è la capacità principale oggi richiesta ai manager: riconoscere ed esaltare le differenze che fanno la differenza per la persona e per tutta l’azienda.
Ne abbiamo veramente bisogno?
Si senza se e senza ma è la nostra risposta. Ne abbiamo bisogno se:
- vogliamo veramente contribuire a creare un mondo migliore
- vogliamo veramente riconoscere una volta per tutte che è il talento umano il vero elemento che può, con l’aiuto dell’innovazione, portare o meno al successo un’azienda anche economicamente
- l’approccio a taglia unica fino ad oggi adottato non genera più quella differenza necessaria a garantire nel tempo la sostenibilità di un’azienda, intesa come la sua durabilità nel futuro
Agire concretamente una leadership inclusiva significa accogliere, coinvolgere e attivare persone diverse.
Soprattutto significa metterle in condizione di dare il loro miglior contributo.
Come gestire al meglio la Diversity e Inclusion
Per questo la leadership inclusiva richiede molta energia, spirito di iniziativa e capacità di mettere costantemente in discussione i propri pregiudizi.
E’ fondamentale imparare a riconoscere che ci sono delle distorsioni cognitive, o per meglio dire dei bias che in tutti noi tendono ad ostacolare l’inclusività.
Farlo come leader è importante perché incoraggia gli altri a fare lo stesso e confrontarsi permette di lavorare assieme per superarli.
Il leader inclusivo mette insieme abilità da alchimista e preparazione, per poter dare valore alle diversità e micro diversità.
Messe insieme permettono ad ognuno di poter contribuire veramente a generare più valore per sè e per l’azienda.
Questo significa elaborare una strategia di Diversity e Inclusion virtuosa, per dare spazio a tutte le anime dell’azienda.